Gelosia

Non sono gelosa. Mi sono educata a non esserlo. Con determinazione. Essere geloso è sintomo d’incapacità di controllo, di ossessività. Un atteggiamento esecrabile, persino demodé. Non si può essere gelosi, no, ovvio. Ma perché? Perché la gelosia disturba l’altro, l’oggetto di questo sentimento. Implica una restrizione di libertà, un controllo e allora arriva il veto: non permetterti di essere geloso. Non esiste un verbo che descriva il sentimento, tipo “gelosire” o “gelosare”. La gelosia è uno stato dell’essere non un’azione. Eppure, l’altro giorno, ho visto mio figlio, di sedici mesi, generalmente allegro, simpatico, di buon umore e sorridente arrabbiarsi con forza perché la figlia della nostra vicina di casa—della stessa età—aveva preso a giocare con i suoi balocchi. Non l’avevo mai visto arrabbiato. Prendeva i giochi dalla mano della bimba, gridando un determinato “no!” e scansando lo sguardo interrogativo di lei. Ho sorriso, un po’ imbarazzata sul da farsi perché è in quel momento che mi sono resa conto che alla non gelosia (qual è il contrario di gelosia?) l’avrei dovuto educare, imponendo ai suoi naturali istinti una limitazione. Culturale. Dovrò iniziare una lenta e costante opera di convincimento attraverso cui ridirigere il suo naturale istinto di possessività e protezione, e insegnargli che ciò che lui prova è sbagliato. E allora, guardandomi bene indietro mi sono accorta che la mia personale educazione alla non gelosia aveva qualche falla: a ben vedere, tracce di gelosie innocue qua e là erano apparse, ma le avevo stoicamente ignorate per tornare ad essere la brava bambina educata che gelosa non è. Per non disturbare e soprattutto per continuare a ricevere approvazione.