Epistemologia delle ferite

Ci sono quelle del corpo, quelle dell’anima, quelle della mente, della memoria. E anche nel corpo, ci sono quelle della pelle o degli organi. Ci sono ferite che spariscono, altre che si trasformano in cicatrici, altre ancora in segni. Ci sono quelle autoinflitte e quelle subite. Quelle conquistate in un confronto e quelle inaspettate. Quelle evidenti e quelle nascoste. Alcune ferite danno tanto dolore nell’immediato quanto guariscono in fretta e si trasformano al massimo in un temporaneo fastidio per poi venire dimenticate. Tagli, sbucciature, rotture della pelle come dell’anima. Profonde o superficiali, piccole o grandi. Di alcune ferite ci si innamora, con indulgenza. Possono far sentire eroi, ricordano l'essere sopravvissuti. 

Delle ferite inflitte dalle parole

Di queste il corpo porta traccia nella postura e nello sguardo. Anche nella scelta delle parole, là dove queste riescano a sfuggire le sceneggiature dei propri circoli di appartenenza. Tracce visibili a pochissimi specialisti del settore che abbiano a loro volta speso tempo e riflessioni nell’analisi delle ferite proprie e altrui. L’epistemologia come disinfettante. Il diario come benda.

Delle ferite inflitte dai silenzi

I silenzi possono dare sollievo o ferire. Come nel caso delle parole, è l’accumulo, la ripetizione o l’abitudine, che porta alla lacerazione di quei veli di tessuto con cui si costruisce il costume di scena della nostra identità.

Delle ferite inflitte dalla mancanza

Che sia di cibo, acqua, amore, passione o acculturamento. La mancanza può penetrare e abusare come una lancia un corpo. Tanto più forte il bisogno, tanto più forte la ferita.

Delle ferite inflitte al corpo

Ancora oggi, il mio soffio o il mio bacio, bastano a mio figlio per lenire il dolore di una sbucciatura o di un livido. Queste sono le ferite che si curano con l’attenzione. Un abbraccio meglio di un cerotto.

Ci sono poi quelle praticate dai medici, per salvare il paziente. Spesso trasformate in cicatrici. Hanno più orgoglio e più storia dei tatuaggi. Chi le indossa ci mette un po’ a farle proprie.

Delle ferite guarite

Quelle che può capitare di cercare per risentire una leggerissima e assai intima punta di lieve dolore. Là dove il dolore non fa male né paura. L’apprezzare l’estetica del proprio struggersi è una forma di autoerotismo.

 

Colonna sonora: Different Pulses di Asaf Avidan 

Spiegare

Spiegare vuol dire, distendere ciò che è ripiegato, rendere manifesto, esporre e quindi far capire, (e)semplificare. E’ legata a questa interpretazione del verbo l’espressione, usata spesso, “bisogno di aprirsi”, per indicare la necessità di svelarsi o mostrarsi. Necessità tanto più visibile, di questi tempi, in cui, si condividono sui social network, foto e descrizioni di quel sé che si é o che si vorrebbe essere. Aprirsi vuol dire anche guadagnare spazio, allargarsi verso l’altro, conquistare territori nell’intimità altrui che vorremmo pronta ad accoglierci.

Il verbo spiegare, può anche riferirsi all’azione di disporre in linea persone o forze armate per difendere per esempio un territorio. Un verbo denso, che si riferisce all’apertura ma anche alla protezione. Quando si cerca di spiegare, si cerca una comunione con l’altra persona, si cerca intimità e soprattutto si cerca accettazione. Si desidera essere accettati nonostante la complessità o presunta inspiegabilità che ci caratterizza. A volte però capita che, dall’altra parte, non si trovi un recipiente compatibile o attrezzato ad accogliere le nostre parole e le nostre spiegazioni. Troviamo un’altra lingua, sordità o muri di altre spiegazioni, altre parole o dispiegamenti di forze che vogliono, a loro volta raccontarsi, ma così facendo, non permettono di entrare. Così, piano piano, il territorio su cui questi tentativi di condivisione vengono giocati, si trasforma da, giardino di giochi a campo di battaglia. Il campo di incontro/scontro si estende, si allarga sempre più fino a che, si arriva un giorno, ad accorgersi che non si vede più, dall’altra parte, la persona dentro alla quale vorremmo entrare o alla quale volevamo, almeno, avvicinarci. A quel punto, spesso, i tentativi di spiegare decadono. Il giardino si trasforma in campo, poi collina e a volte montagna o persino ghiacciaio. Ognuno separato oramai dallo spazio di incomunicabilità su cui non ha più alcun senso dispiegare il piccolo fazzoletto che siamo. E ognuno continua il proprio percorso caricandosi sulle spalle, più o meno consapevolmente, il peso della frustrazione di non essersi “spiegato” bene. 

(originalmente pubblicato 5 novembre 2013)

Scrittura femminile

In risposta ad un generoso stimolo di Laura Occhini.

Ma cos’è lo stile? Ed è possibile parlare di stile di una categoria sociale o di genere? Non sarebe più corretto parlare di sitle generazionale o di un certo periodo storico? E, soprattutto, ai giorni nostri, è ancora possibile parlare di femminile e maschile? E così via, potrei farmi prendere la mano dal gioco delle domande e produrre quella che il meraviglioso personaggio Jep Gambardella chiama “fuffa”, nell’ultimo film di Sorrentino “La Grande Bellezza” la cui sceneggiatura e fotografia, entrambi maschili (?) ho adorato. Fuffa accademica aggiungo. Potrei si, ma in realtà desidero darla una risposta, cara Laura, a te che sei capace di stimolarci anche (o dovrei dire persino?) su facebook. Spicciola e possibilmente poco critica (perchè di questi tempi c’è la tendenza a confondere la capacità critica con la critica). 

Quando ho pubblicato il primo libro “Intimo abbecedario” nel 2004, l’editore lo mandò ad una giornalista per chiederle una recensione. A detta di lui, lei rifiutò perchè, il libro era troppo femminile. Spiegandomi la cosa al telefono, lui mi chiarì, forse per rassicurarmi che “sai, è una di quelle femministe vecchio stampo. Mi dispiace. La tua è una scrittura troppo femminile.” 
E così, da allora, iniziai a farci caso a quell’etichetta: “scrittura femminile”. Anche quando il libro fu presentato ad Arezzo, dal Prof. Ricci, docente di linguistica, la mia scrittura fu definita così. Femminile. E perchè, chiesi. Perchè è una scrittura di corpo e sangue, mi disse e definì l’Abbecedario un “Sashazade”. Lì per lì poteva bastare, ma ancora non sentivo di avere la risposta dissetante. Con i nuovi libri, negli anni, la cosa non è cambiata, tanto che io stessa ho iniziato a presentarmi come “scrittrice al femminile” e fare di questo bollino il mio vessillo. Ma nel mio caso l’aggettivo “femminile” non si riferiva all’essere scrittrice di romanzi rosa o di appendice, quanto ad un essere salda nella mia ricerca dell’identità femminile. Nel mio autodefinirmi così volevo andare fino in fondo alla questione, nonostante mi fosse chiaro che la differenza tra femminile e altro, non necessariamente maschile, sia ben poco distinta e distinguibile. Ed ancora meno distinta lo è adesso che invece sappiamo tutti, e molto bene, che sono le donne le principali clienti delle case editrici e che la chicklit, o generi simili, vendono bene e benissimo (guarda il caso “50 sfumature...”). Eppure i termini sono ancora quelli vecchi, e, oserei dire, maschilisti. Definizioni attraverso cui si identifica una scrittura che si, può persino essere gradevole e interessante, ma sarà sempre relegata ad un livello che l’eccellenza non la potrà raggiugnere (è mai stato dato un Noble ad una scrittrice “femminile”?).

Ho richiamato alla mente le sensazioni datemi da Calvino, Dostojevski, Shakespeare, o Eliot e poi ho pensato alla Woolf di Orlando, alla Yourcenar o alla Nothomb. Certo, di fronte a questi nomi arretro. E se sono scrittori loro, io sono una scalpellina, una lavapiatti accanto ad uno chef. Ma fatta questa dovuta precisazione, ritengo che ciò che caratterizza la mia scrittura è l’essere intellettualmente carnale. Una scrittura che cerca una stretta di mano, che non sfugge e non si nasconde dietro alla trama. Una scrittura ostinata nel rifiutare i parametri maschili di ciò che è femminile. Una scrittura che vuole graffiare i taboo imposti dalla letturatura maschile sul corpo femminile tipo il divieto di maleodorare, invecchiare, masturbarsi o persino godere senza bisogno di uomo. Una scrittura pragmatica, di chi scrive mentre sente le urla, non tanto del figlio, quanto del senso di colpa, inflitto da chi vuole giudicarti per controllarti.

(originalmente pubblicato 17 luglio 2013)

Parole: vendono realtà o virtualità?

Osservo la timeline di Twitter scorrere: spartito di anime e emozioni. Guardo tutte quelle parole e questi nuovi simboli che la realtà virtuale ha richiesto, là dove le parole non funzionavano o fors intralciavano. 

Siamo tutti scrittori. Appurato. I social network sono i nuovi editori. Appurato. La parola pubblicata ha perso potere per cedere il posto a quella virtuale e, soprattutto, alle immagini. Chiaro anche questo. Le vecchie gerarchie sono frantumate. E gli spocchiosi detentori di egemonie culturali, ancora convinti di avere in tasca il potere del sapere, non se li fila più nessuno. Eppure.

Eppure i percorsi che noto sono due: da una parte un'euforia collettiva in cui si gioisce di barriere cadute, pur senza mai averne avuto precisa consapevolezza. Dall’altra la parola virtuale, soprattutto in chat, là dove va a colmare sguardi, gesti e odori, si gonfia di aspettative. Si carica di emozioni con una intensità che la realtà non permetterebbe. Le non-barriere fanno scivolare nell'intimità, con sé stessi in primis. E questa intimità viene condivisa con il malcelato desiderio di non voler ben sapere chi c’è dall’altra parte a leggere, perché questo altrimenti, implicherebbe intimità. Così gli scambi sui social network, che tanti flirt favoriscono, sono scambi veloci, sincopati, schietti, informali e fondamentalmente più emotivi--a volte persino più sinceri. La formalità viene meno a favore dell’intensità e di un liberatorio egoismo linguistico. E tra le pieghe di questi nuovi scambi nascono persino "innamoramenti", non meno reali o intensi che nel vissuto fuori dallo schermo. E a poco serve quindi separare reale e virtuale.

(originalmente pubblicato 12 gennaio 2013)

Come stai?

C’è stato un momento in cui ho iniziato a fare molta attenzione alle parole. Non so bene quando. Forse perché mi sono accorta che alle parole potevano seguire delusioni e speranze, a volte dolore. E allora, forse, ho pensato che se stavo molto attenta, se ascoltavo bene, forse allora avrei potuto evitare qualche sbucciatura. Così intorno agli undici o dodici anni, o per lo meno in quel periodo in cui passavo da una vita sociale passiva ad una più attiva, iniziando ad essere consapevole delle mie preferenze in fatto di luoghi e compagnia, ecco, allora ho iniziato ad interrogarmi su come dovevo rispondere alla domanda “come stai?”. Interrogativo che mi investiva regolarmente, atteso senza gioia come l'autobus che mi portava a scuola la mattina. Come stavo? E soprattutto, what was I supposed to say? Che cosa ci si aspettava rispondessi? La verità? O una battuta standard estratta dai manuali d’intelligenza sociale? 

Riflettendo su questo adolescenziale dilemma, avevo intuito due cose: che in generale era preferibile dicessi che stavo bene e che in quanto a risposte c’erano delle mode. Potevo scegliere tra:
insomma, così (così), benone, alla grande (anni ‘90?), non c'è male, potrebbe andare meglio, da dio (anni ’80?), e anche, non lamentiamoci. Ma dovevo evitare cose tipo: sono in premestruale, ho mal di denti, sono depressa, sono esilarantemente felice…
 
Le cose, si complicavano ulteriormente quando passavo alle altre lingue a me familiari. Quando andavo a Belgrado per esempio, mia seconda casa, la domanda di routine aveva due possibili versioni: “kako si”, come stai, ma anche “gde si”, che letteralmente vuol dire dove sei. Il problema era che io, parlando la lingua degli emigrati, cioè quella che non si aggiorna mai, non capivo subito e allora mi ritrovavo, nel secondo caso, a rispondere alla lettera, specificando il logo in cui ero nel momento in cui parlavo. Tipo: “come stai?” “sono in cucina”. 

Quando iniziò la mia vita americana i dubbi aumentarono. “How are you today mam’?” Mi chiedevano le commesse sorridenti appena accennavo ad entrare in un negozio. Ed in effetti, nei miei timidi tentativi di approdare ad una risposta socialmente accettabile avevo seriamente preso in considerazione che le suddette commesse non fossero minimamente interessate al mio stato d’animo. Ma il dubbio rimaneva. Tra un “fine” e l’altro, anche lì stilai presto il catalogo delle possibilità previste: oltre a fine, potevo scegliere tra well, not so bad, great, ok. 

E allora m chiedevo, cosa rispondi se hai dodici anni e hai una cotta struggente per un ragazzo che non sa nemmeno che esisti? Oppure se hai venti anni e per la prima volta l’hai combinata veramente grossa di nascosto ai tuoi? O se hai trent’anni e hai perso il lavoro ma ciò nonostante avresti voglia di comprarti tutto quello che c’è nel negozio della commessa sorridente e che non ha nessuna inenzione di stare a sentire come ti senti?

Ci sono molte poesie, ho scoperto, intitolate alla fatidica domanda “how are you”, ma voglio riportare qui le due che mi hanno colpito di più, per motivi diversi. La prima è di John Berryman, Dream Song 207 (l’ho tradotta nel mio libro “Con un Buco nel Cuore”).

-How are you? -Fine, fine. (I have tears unshed.
There is here near the bottom of my chest
a loop of cold, on the right.
A thing hurts somewhere up left in my head.
I have a gang of old sins unconfessed.
I shovel out of sight

a-many ills else, I might mention too,
such as her leaving and my hopeless book.
No more of that, my friend.
It's good of you to ask and) How are you?
(Music comes painful as a happy look
to a system nearing an end

an empty question slides to a standstill
while the drums increase inside an empty skull
And the whole matter breaks down
or would it would, had Henry left his will
but that went sideways sprawling, collapsed & dull.)
How are you, I say with a frown.



La seconda è di Charles Bukowsky.

Hello, how are you?

this fear of being what they are:
dead. 

at least they are not out on the street, they
are careful to stay indoors, those
pasty mad who sit alone before their tv sets,
their lives full of canned, mutilated laughter. 

their ideal neighborhood
of parked cars
of little green lawns
of little homes
the little doors that open and close
as their relatives visit
throughout the holidays
the doors closing
behind the dying who die so slowly
behind the dead who are still alive
in your quiet average neighborhood
of winding streets
of agony
of confusion
of horror
of fear
of ignorance. 

a dog standing behind a fence. 

a man silent at the window. 



Dopo tante riflessioni, ho provato a sperimentare diverse alternative. C’è stata la fase del “male, grazie”. A prescindere. Rispondevo sempre così, con leggerezza, allo stesso modo in cui, probabilmente avrei risposto “bene”. Se dovevo togliere significato a quella parola, allora tanto valeva divertirsi e sostituirla con il suo opposto. Era il mio tentativo di ribellarmi. Poi c’è stata la fase dell’ottimismo a tutti i costi. Ero intenzionata a stare bene e quindi dovevo formulare questo intento nei miei copioni sociali. Sempre bene. Finalmente mi sono rassegnata all’idea che la domanda non sta a significare esattamente ciò che indica, ma è una forma di cortesia. Un abito da sera. Una decorazione stradale. E allora, stamattina, quando un collega mi ha chiesto “come stai” ed io stavo annaspando ansiosa tra le mie email, mi sono sentita uscire uno smagliante “Bene! Tu?”. Dovevo tagliare corto: avevo fretta di continuare a lavorare--alla faccia dell'era della comunicazione. 

(originalmente pubblicato 14 maggio 2012)

“No” e il potere delle parole

Oggi mio figlio compie un anno e mezzo. Sta iniziando a parlare. Capisce molto, persino qualche parola in inglese, ma le parole che pronuncia sono ancora poche e abbozzate. Riesce a dire “mamma”, “coco”, che sta per “gallina”, “otto” che sta per, “pronto”, “onno” che sta per “nonno”. Ma tra tutte le parole che ha imparato ce n’è una che pronuncia con certezza, senza imperfezioni e soprattutto avendo ben chiaro il potere che quella parola gli ottiene: NO. La dice spesso, quasi a ribadire che adesso, finalmente, può decidere lui, senza più subire passivamente le pappe infilate in bocca o le nenie stonate che non vuole ascoltare.

Imparando a pronunciare questa sillaba, ha imparato il potere magico delle parole: appena la pronuncia, il mondo si ferma, s’inginocchia al suo volere e il gesto a cui lui si sta opponendo, viene interrotto. Come avesse in mano una bacchetta magica, riesce, per la prima volta da quando è nato ad avere un controllo attivo sulla vita. E noi lì, incerti, a valutare se rispettare o no la sua volontà, per la prima volta ammirati e anche un po’ interdetti da questa fermezza tutta nuova che finalmente riesce ad esprimersi. Per ora al “si” non c’è arrivato, ma quando qualcosa gli va a genio, annuisce convinto.

(originalmente pubblicato 19 febbraio 2012)

Scrittura e corpo

“Una sorta di risalita al corporeo può suscitare nel semiologo un’improvvisa diversione teoretica, che lo conduce dall’accezione ‘metaforica’ della scrittura verso l’aspetto manuale del termine […]: quel gesto con il quale la mano impugna uno strumento – punzone, calamo, penna – l’appoggia su una superficie, vi avanza premendo o carezzando, e traccia forme regolari, ricorrenti,ritmate.” Roland Barthes, in Variazioni sulla Scrittura, Einaudi, 1999, pg.5. Ho scritto poco usando la penna e solo in mancanza di una tastiera. Non ho mai amato la penna perché troppo lenta rispetto alle mie parole. Avrei voluto. Tanto. Affascinata dalle pagine degli scrittori famosi che descrivevano le loro abitudini stilografiche e le loro puntigliose preferenze. Volevo essere come loro e ci ho provato, credendo che la penna avrebbe funzionato come bacchetta magica, ma non l'ho mai trovata questa penna perfetta, stimolo di eloquenti pensieri e indulgenti sensazioni. Eccetto forse che per la china, quella ha funzionato per me come le scarpette rosse del famoso musical, ma non era pratica e alla fine anche lei è stata dimenticata. Le penne, le perdo con facilità e le più costose mi sono state rubate. Per quanto riguarda la carta ho scritto su tutto, qualsiasi superficie potesse accettare le mie lettere. Joe Fiorito, uno scrittore canadese con cui ho frequentato un corso di scrittura creativa ci regalò un piccolo block notes tascabile da portarsi sempre dietro per gli appunti. Ed è vero, aveva ragione, i pensieri interessanti capitano quando non puoi scrivere. L’ho usato per un po’ e poi l’ho messo via insieme a tutti gli altri che via via avevo provato dimostrando a me stessa per l'ennesima volta che una piccola superficie su cui spillare le proprie impressioni si trova sempre: dai sacchetti di carta in aereo, ai tovagliolini, al retro di scatole e persino sms a me stessa. Forse è per questo stesso  motivo che non sono mai riuscita ad essere fedele ad un’agenda. Ho risolto stampando, mese per mese, il foglio del mese che mi serve. Poco peso, poco ingombro e soprattutto se perdo il foglio ho perso soltanto la memoria degli appuntamenti, ma niente più. Mi sono chiesta che cosa cambiasse tra lo scrivere a mano e lo scrivere a penna. Ascoltavo amici, professori e scrittori delle generazioni precedenti raccontarmi commossi le loro passioni nello scegliere la carta e la stilografica. Avrei tanto voluto essere come loro, con una mia abitudine, una mia preferenza, una fisicità della scrittura che ancora non conoscevo. E poi, mi sono rassegnata, pensando tra le altre cose, che forse era proprio per questo che non ero una scrittrice. Non ancora. L’identità delle abitudini. Ho cambiato idea stamattina però ascoltando le mie dita sulla piccola tastierina, scomoda, del mio unico portatile. Ascoltavo quel ritmo. Ogni tastiera ha la sua musica e ogni testo produce un ritmo diverso. Nelle prime bozze il ritmo è generalmente frenetico forse perchè le immagini, i racconti, i personaggi, sono stati dentro a lungo sono cresciuti e, una volta pronti, affiorano in cima alle dita con forza. Nelle bozze successive invece il ritmo rallenta, s'impunta, riflette. E' un po' come la musica dodecafonica, ci vuole molta più attenzione per ascoltare e seguire l'onda delle parole. Così la scrittura sulla tastiera è ancora più fisica di quella della penna, usa entrambe le mani e produce in modo industrializzato con i suoi viziati copia e incolla, le sue correzioni automatiche, i sinonimi standardizzati e la sua apparentemente sicura localizzazione di ogni testo. Sarà anche per questo, deduco, che siamo diventati tutti scrittori...

(originalmente pubblicato 29 marzo 2007)

Lo scrittore

Strano destino quello dello scrittore. Gioire della propria solitudine ad al tempo stesso fuggirla nei propri personaggi. Crearsi un proprio mondo dove le cose funzionano come vogliamo. Placarsi l’animo con le proprie parole. Osservare la gente, analizzare, studiare, ricercare, approfondire argomenti, ma alla fine, sempre in solitudine. A volte con gioia, a volte con dolore.

(originalmente pubblicato 22 marzo 2007)

Sulla lettura

Non mi sembra proprio, come ho sentito spesso dire, che non si legga più. Mi pare questa al contrario l'epoca della iper-lettura. Siamo sempre a leggere, dagli sms, alle istruzioni per una vita sana sulla scatola dei Corn Flakes. Un boccone di giornale con il cappuccino, una sniffata di pubblicità sull’autobus, mentre si sbircia la pagina del vicino e si controlla la Time Line di Twitter. Poi per strada, manifesti, onoranze funebri, locandine, pubblicità, graffiti, autoadesivi sulle macchine. Biglietti da visita lasciati in giro come le cacche dei cani di padroni arroganti. E in ufficio, dove anche i quadri oramai hanno frasi-motto-incoraggiante, oltre alle mail, alla chat, ai fax, alle lettere, ai post-it e agli sms, ci sono le istruzioni, i manuali, i banner, i tag e gli immancabili e oramai invisibili cartelli di divieto: “vietato fumare” oppure “si prega cortesemente di non gettare gli assorbenti nel wc” o ancora, sulle porte dei bagni, sesso come sulle bancherelle del mercato “paghi uno prendi tre”.           

Parole, norme, sigle, consigli, acronimi appesi, incollati, infilati dovunque, con le stampanti e le fotocopiatrici sempre in azione, pronte a riprodurre. E noi leggiamo senza tregua, senza difesa, perché la lettura è una malattia cronica, una volta che hai imparto non puoi più smettere. E ha ragione Stephen King allora nel suo “On Writing” dove ci spiega—per chi non se ne fosse accorto—che non è lo scrittore a creare i personaggi, ma che loro hanno una vita propria. Lo scrittore come un archeologo, deve solo riportarli alla luce e tanto più delicato e attento sarà, tante più saranno le probabilità di estrarre dalla memorie della terrra un bel dinosauro tutt’intero che, trasportato al museo giusto, attirerà molti visitatori. Ed è per questo quindi che scriviamo tutti e siamo tutti scrittori, dalla lista della spesa in su, per riuscire a gestire e digerire tutte quelle parole che ci intasano il cervello dal quel fatidico momento in cui ci hanno insegnato a leggere. E sono anche certa che il successo di google è dovuto soprattutto al fatto che sulla sua homepage non c’è scritto nulla. Per vendere di più gli editori dovrebbero difendere i propri lettori dalla guerra delle parole. Quello che loro, gli editori, rivendicano in realtà è la continuità. Leggere la stessa cosa per un po’, tipo un libro, appunto. Concedere il proprio tempo allo scrittore per più di due paragrafi, più di 38 secondi. Ed è quindi anche per questo che i libri più venduti sono quelli che tengono il fiato sospeso. Il bravo autore si preoccupa, secondo i cliché del manuale del bravo amante, di procurare orgasmi multipli. Ma il lettore non sarà mai completamente appagato in realtà, e continuerà a cercare le sue parole altrove per trovare, finalmente, un po’ di silenzio. E questo senza tregua e dovunque, persino tra i propri tatuaggi.

(originalmente pubblicato 22 febbraio 2007)

Il dolore

Nell’abbecedario ho scritto che il dolore "si annida nelle viscere e tende a rimanerci". Ho cambiato idea. Mi sembra invece che ci siano due tipi di dolore. Quello viscerale, del sangue e della pelle, quello che ti fa ammalare di gastrite, di colite, che ti fa venire la psoriasi e anche il tumore. Quello che ti spinge, nelle sue forme lievi, a riempirti la vita d’impegni, di rumori, di gente e di competizioni e in altri casi di droga o alcol. 

   Ma c’è anche un altro dolore, quello mentale. Nel primo caso è come un albero che è stato investito da una macchina o da una roccia. Andava tutto bene e all’improvviso… L’albero sopravvive, ma ci vuole tempo e a volte rimangono forti i segni dell’incidente. Nel secondo caso invece, è come se l’albero avesse perso tutte le foglie: non può prendere la luce del sole attraverso di loro, non può fare fiori, non può rinfrescare i passanti con la sua ombra e per dissetarsi deve affondare le sue radici ancora più in profondità. Quando i due dolori, quello della mente e quello del corpo, arrivano insieme si approda alla follia. Entrambe i tipi di dolori sono ambiziosi, vogliono tutta l’attenzione possibile, ma è proprio questo il problema. E’ con il distacco che il dolore si placa, non ignorandolo, ma prendendosene cura come se, appunto, fosse un albero. Gli alberi non s’innaffiano, mi disse una volta mia madre. E così c’è veramente poco da fare per prendersi cura di un albero. Se c’è rimedio, spruzzargli la medicina, pulirlo dai parassiti, prendersene cura senza ossessione, forse abbracciarlo, sedercisi accanto e anche parlargli, ma fondamentalmente aspettare ed avere fiducia. La natura vince sempre anche con la morte. E a volte è proprio necessario lasciarsi andare, anche al dolore. A costo di guarire.

PS

Dopo aver scritto queste righe sono uscita di casa e ho notato che in giardino, dove stanno facendo dei grandi lavori di ristrutturazione avevano scoperto gran parte delle radici di un enorme pino. Passando si sentiva forte l’odore di resina. L’albero sanguinava profumando l’ambiente della sua essenza. Sicuramente stava soffrendo, ma so anche che lo ricopriranno. Chissà che non ci sia un terzo tipo di dolore, quello delle radici scoperte. Quello dell’ingiustizia inspiegabile…

(originalmente pubblicato 23 aprile 2007)

Il giudizio

Il giudizio degli altri. Perché è così importante? E perché è così importante imparare a fregarsene? C’è chi ne ha fatto un' ossessione e chi una professione. C’è chi impara a scivolarci dentro e chi ci si ammala. Lettere di raccomandazione, presentazioni, ammiccamenti, ammonimenti, referenze, contatti, rete, la banca dei favori... Non so. L’unica cosa che mi pare evidente è che l’ambizione al potere, alla visibilità ed al successo è proporzionale alla propria insicurezza.

(originalmente pubblicato 30 maggio 2007)

Riflessioni sul "non"

Non mettere i gomiti a tavola. Non parlare con il boccone in bocca. Non sudare. Non fare tardi.

E ancora: non desiderare la donna d’altri, non commettere atti impuri, non dichiarare il falso…

Dai genitori alla religione, dagli insegnanti ai compagni di vita, la personalità e il corpo sono stati istruiti attraverso infiniti “non”. E tanta e tale diventa l’abitudine alla particella privativa che trovatisi adulti, nell’area elettrica del dover essere (più così e meno cosà) adottiamo il comportamento del “non” a presunta tutela del nostro e altrui benessere: non devo fumare, non devo chiamare, non devo rispondere. E ancora: non ti preoccupare, non ci pensare, non puoi farti scappare quest’occasione, non puoi assillare così. Fino ad arrivare ai “non” che intimidiscono per la loro aspirazione all’infinito: non ho tempo, non ho parole, non ce la faccio più, non lo so, non ti amo più.

NON mi ero mai resa conto di quanti “non” mi avessero plasmata—corpo e mente (e come donna ne ho subiti di più: non stare a gambe larghe che sta male) ma ero inevitabilmente consapevole dell’eccesso del mio universo. Innanzitutto linguistico in quanto fermamente convinta che ogni realtà abbia origine nella parola che la definisce. Così ecco concedermi a sorpresa uno spazio protetto in cui la negazione diventa un’oasi e non ha più bisogno di altri sostantivi o verbi al seguito.Finalmente raggiunta la sua maturità, adesso la negazione si basta da sola e mi concede di non definirmi, mi permette di non essere e soprattutto di non cercare significati.

Ne ho visti i segnali in più ambiti e forme: dal movimento dei no-logo (quelli che si rifiutano di indossare qualsiasi cosa che abbia su stampato il marchio del produttore), alla non-ciclopedia (un’enciclopedia dove non si trovano né notizie, né dati, né parametri), ai quelli che rivendicano il diritto di non fare sesso, fino ai mangiatori per negazione: no carne, no pesce, no latticini… La negazione non solo concede, ma addirittura esalta e nutre smarcando i ceti dalla dittatura della quantità.

E là dove l’arte mi guida nell’intimo viaggio del già sentito, là dove desta sentimenti divini e aspirazioni ipnoticamente sensuali, dove mi umilia ricordandomi di essere granello su un’infinita spiaggia di sabbia, l’arte ancora mi è madre. Mi educa, mi vieta e mi concede. E allora il ‘non’ arriva a smarcarmi, violentarmi con necessarie cesure e temibili libertà, mi ritorna nell’universo pre-uterino dove non c’è bisogno di definizioni perché il mondo delle parole non regna. Ed è forte quindi la tentazione di sostituire il mio semptirerno ed ossessivo motto di vita—divieni ciò che sei—con un nuovo dictat: cercati in ciò che non sei.

(originalmente pubblicato 27 agosto 2009)

Malattia

L’accanimento ossessivo della mia epoca sul presunto mantenimento del corpo e soprattutto sull’aspetto apparente del corpo vorrebbe esorcizzare la morte e, soprattutto, la malattia. Abbiamo perso il carnevale, l’inferno e il paradiso, abbiamo perso Dio e l’anima, abbiamo perso l’umiltà adesso stiamo perdendo la vita, che si può manifestare solo con la ciclicità della crescita e maturazione. Ci rimane, in quest’inganno culturale, l’illusione che solo il tangibile sia importante, solo il razionale sia credibile aggiungendo ai vecchi il tabù della scienza: ciò che non è dimostrato scientificamente non ha valore. E così ci si trucca, ci si maschera da immortali. Non mi stupirebbe se iniziasse ad andare di moda persino tingere il pelo al proprio cane/gatto/furetto pur di nascondere le tracce di corruttibilità del corpo.   

La malattia e’ ricerca di salute. L’artista e’ un ammalato che cerca di non soffrire, l’arte e’ la sua medicina, il suo sollievo, la sua schiavitù, la sua fonte di insicurezze e instabilità emotive.

(originalmente pubblicato 20 maggio 2010)

Gelosia

Non sono gelosa. Mi sono educata a non esserlo. Con determinazione. Essere geloso è sintomo d’incapacità di controllo, di ossessività. Un atteggiamento esecrabile, persino demodé. Non si può essere gelosi, no, ovvio. Ma perché? Perché la gelosia disturba l’altro, l’oggetto di questo sentimento. Implica una restrizione di libertà, un controllo e allora arriva il veto: non permetterti di essere geloso. Non esiste un verbo che descriva il sentimento, tipo “gelosire” o “gelosare”. La gelosia è uno stato dell’essere non un’azione. Eppure, l’altro giorno, ho visto mio figlio, di sedici mesi, generalmente allegro, simpatico, di buon umore e sorridente arrabbiarsi con forza perché la figlia della nostra vicina di casa—della stessa età—aveva preso a giocare con i suoi balocchi. Non l’avevo mai visto arrabbiato. Prendeva i giochi dalla mano della bimba, gridando un determinato “no!” e scansando lo sguardo interrogativo di lei. Ho sorriso, un po’ imbarazzata sul da farsi perché è in quel momento che mi sono resa conto che alla non gelosia (qual è il contrario di gelosia?) l’avrei dovuto educare, imponendo ai suoi naturali istinti una limitazione. Culturale. Dovrò iniziare una lenta e costante opera di convincimento attraverso cui ridirigere il suo naturale istinto di possessività e protezione, e insegnargli che ciò che lui prova è sbagliato. E allora, guardandomi bene indietro mi sono accorta che la mia personale educazione alla non gelosia aveva qualche falla: a ben vedere, tracce di gelosie innocue qua e là erano apparse, ma le avevo stoicamente ignorate per tornare ad essere la brava bambina educata che gelosa non è. Per non disturbare e soprattutto per continuare a ricevere approvazione.

Concordia

La concordia era una nave. No. La concordia era una città. Bel nome per una città. Una città di metallo, legno, vetro e plastica. Una città che è affondata. No. Una città che è cascata su un fianco, come un animale abbattuto: quando casca, non si rialza più. E così è lì, sfiancata. I motori si sono fermati, la musica è affogata. E lei è rimasta così, mezza coperta e mezza in mostra. La concordia era un urlo orgoglioso contro al mare. Diceva, non mi fai paura. Io sono grande. Grande come una città. L'hanno costruita così. Una città in mare, per poter spostare un po' più in là l'orlo della gonna di mamma terra ferma. E la città si è trasformata, in labirinto. Corridoi come intestini, da percorrere per trovare la conferma della morte. E il filo di Arianna, non è stato tessuto con la speranza. La concordia era la promessa di felicità, di foto da mostrare, di sorrisi da mettere in tasca e conservare per gli ospiti buoni. La sotto regna il silenzio della placenta marina, mentre sopra continuano le urla di altre città. Concordia era il sinonimo di armonia e pace. No. Non più. Non solo.

(originalmente pubblicato 25 gennaio 2012)