Sull'identità

In una delle scene finali di “Tutto su mia madre”, famoso film di Almodovar, Agrado, uno/a dei protagonisti, racconta quanto le è costato trasformarsi da uomo a donna e conclude commentando: “si è se stessi tanto più ci si avvicina all’idea che di sè si ha”.

Si passa una vita intera cercando un’identità, un piccolo cassetto in cui infilarsi per sentirsi al sicuro. S’inizia con la squadra di calcio del cuore, il segno zodiacale e il colore preferito. Poi si passa a io sono di sinistra, io sono buddista, io sono un ferrarista oppure ancora io sono un invalido o io sono un avvocato. La professione è fondamentale per definire la propria identità. Persino i precari, gli ex cococo, i contrattisti o gli stagionali persino loro, prima o poi, sulla carta d’identità devono indicare qualcosa. Anche solo: disoccupato. E poi: io non mangio carne o ancora, io colleziono unghie rotte. Ci si mette fatica, s’indaga si cerca di fare amicizia con quell’essere misterioso che ci abita e c’inganna facendoci credere che si può diventare ciò che vorremmo essere. Così ci portiamo al guinzaglio in giudizi, comparazioni e voti. Più magro, più alto, più forte, più arrendevole, meno esile, meno imponente, meno buono… Ogni giorno mettiamo un più o un meno alla nostra presunta identità caricandola di valori elettrici proprio come delle pile pronte ad illuminare l’infinito del non essere. C’è chi scrive, chi va dallo psicologo, chi dalla cartomante, chi ancora dal parroco e chi diventa gay. Personalmente le ho provate quasi tutte, persa tra due nomi, tre lingue, tre culture, 32 lavori e 16 cambi d’indirizzo. E poi… se qualcuno mi etichetta, mi da fastidio. Un senso claustrofobico mi assale. L’identità. Ma io, chi sono io? E soprattutto, chi dovrei essere per essere me stessa? Sarebbe bello avere Giorgio, Gaber, e cantarne con lui. Ma non c’è più. 

Agrado cara allora, una domanda per te, tu ti fidi di te stessa quando ti dici chi devi essere?

(originalmente pubblicato 12 marzo 2007)