Parole: vendono realtà o virtualità?

Osservo la timeline di Twitter scorrere: spartito di anime e emozioni. Guardo tutte quelle parole e questi nuovi simboli che la realtà virtuale ha richiesto, là dove le parole non funzionavano o fors intralciavano. 

Siamo tutti scrittori. Appurato. I social network sono i nuovi editori. Appurato. La parola pubblicata ha perso potere per cedere il posto a quella virtuale e, soprattutto, alle immagini. Chiaro anche questo. Le vecchie gerarchie sono frantumate. E gli spocchiosi detentori di egemonie culturali, ancora convinti di avere in tasca il potere del sapere, non se li fila più nessuno. Eppure.

Eppure i percorsi che noto sono due: da una parte un'euforia collettiva in cui si gioisce di barriere cadute, pur senza mai averne avuto precisa consapevolezza. Dall’altra la parola virtuale, soprattutto in chat, là dove va a colmare sguardi, gesti e odori, si gonfia di aspettative. Si carica di emozioni con una intensità che la realtà non permetterebbe. Le non-barriere fanno scivolare nell'intimità, con sé stessi in primis. E questa intimità viene condivisa con il malcelato desiderio di non voler ben sapere chi c’è dall’altra parte a leggere, perché questo altrimenti, implicherebbe intimità. Così gli scambi sui social network, che tanti flirt favoriscono, sono scambi veloci, sincopati, schietti, informali e fondamentalmente più emotivi--a volte persino più sinceri. La formalità viene meno a favore dell’intensità e di un liberatorio egoismo linguistico. E tra le pieghe di questi nuovi scambi nascono persino "innamoramenti", non meno reali o intensi che nel vissuto fuori dallo schermo. E a poco serve quindi separare reale e virtuale.

(originalmente pubblicato 12 gennaio 2013)