Come stai?

C’è stato un momento in cui ho iniziato a fare molta attenzione alle parole. Non so bene quando. Forse perché mi sono accorta che alle parole potevano seguire delusioni e speranze, a volte dolore. E allora, forse, ho pensato che se stavo molto attenta, se ascoltavo bene, forse allora avrei potuto evitare qualche sbucciatura. Così intorno agli undici o dodici anni, o per lo meno in quel periodo in cui passavo da una vita sociale passiva ad una più attiva, iniziando ad essere consapevole delle mie preferenze in fatto di luoghi e compagnia, ecco, allora ho iniziato ad interrogarmi su come dovevo rispondere alla domanda “come stai?”. Interrogativo che mi investiva regolarmente, atteso senza gioia come l'autobus che mi portava a scuola la mattina. Come stavo? E soprattutto, what was I supposed to say? Che cosa ci si aspettava rispondessi? La verità? O una battuta standard estratta dai manuali d’intelligenza sociale? 

Riflettendo su questo adolescenziale dilemma, avevo intuito due cose: che in generale era preferibile dicessi che stavo bene e che in quanto a risposte c’erano delle mode. Potevo scegliere tra:
insomma, così (così), benone, alla grande (anni ‘90?), non c'è male, potrebbe andare meglio, da dio (anni ’80?), e anche, non lamentiamoci. Ma dovevo evitare cose tipo: sono in premestruale, ho mal di denti, sono depressa, sono esilarantemente felice…
 
Le cose, si complicavano ulteriormente quando passavo alle altre lingue a me familiari. Quando andavo a Belgrado per esempio, mia seconda casa, la domanda di routine aveva due possibili versioni: “kako si”, come stai, ma anche “gde si”, che letteralmente vuol dire dove sei. Il problema era che io, parlando la lingua degli emigrati, cioè quella che non si aggiorna mai, non capivo subito e allora mi ritrovavo, nel secondo caso, a rispondere alla lettera, specificando il logo in cui ero nel momento in cui parlavo. Tipo: “come stai?” “sono in cucina”. 

Quando iniziò la mia vita americana i dubbi aumentarono. “How are you today mam’?” Mi chiedevano le commesse sorridenti appena accennavo ad entrare in un negozio. Ed in effetti, nei miei timidi tentativi di approdare ad una risposta socialmente accettabile avevo seriamente preso in considerazione che le suddette commesse non fossero minimamente interessate al mio stato d’animo. Ma il dubbio rimaneva. Tra un “fine” e l’altro, anche lì stilai presto il catalogo delle possibilità previste: oltre a fine, potevo scegliere tra well, not so bad, great, ok. 

E allora m chiedevo, cosa rispondi se hai dodici anni e hai una cotta struggente per un ragazzo che non sa nemmeno che esisti? Oppure se hai venti anni e per la prima volta l’hai combinata veramente grossa di nascosto ai tuoi? O se hai trent’anni e hai perso il lavoro ma ciò nonostante avresti voglia di comprarti tutto quello che c’è nel negozio della commessa sorridente e che non ha nessuna inenzione di stare a sentire come ti senti?

Ci sono molte poesie, ho scoperto, intitolate alla fatidica domanda “how are you”, ma voglio riportare qui le due che mi hanno colpito di più, per motivi diversi. La prima è di John Berryman, Dream Song 207 (l’ho tradotta nel mio libro “Con un Buco nel Cuore”).

-How are you? -Fine, fine. (I have tears unshed.
There is here near the bottom of my chest
a loop of cold, on the right.
A thing hurts somewhere up left in my head.
I have a gang of old sins unconfessed.
I shovel out of sight

a-many ills else, I might mention too,
such as her leaving and my hopeless book.
No more of that, my friend.
It's good of you to ask and) How are you?
(Music comes painful as a happy look
to a system nearing an end

an empty question slides to a standstill
while the drums increase inside an empty skull
And the whole matter breaks down
or would it would, had Henry left his will
but that went sideways sprawling, collapsed & dull.)
How are you, I say with a frown.



La seconda è di Charles Bukowsky.

Hello, how are you?

this fear of being what they are:
dead. 

at least they are not out on the street, they
are careful to stay indoors, those
pasty mad who sit alone before their tv sets,
their lives full of canned, mutilated laughter. 

their ideal neighborhood
of parked cars
of little green lawns
of little homes
the little doors that open and close
as their relatives visit
throughout the holidays
the doors closing
behind the dying who die so slowly
behind the dead who are still alive
in your quiet average neighborhood
of winding streets
of agony
of confusion
of horror
of fear
of ignorance. 

a dog standing behind a fence. 

a man silent at the window. 



Dopo tante riflessioni, ho provato a sperimentare diverse alternative. C’è stata la fase del “male, grazie”. A prescindere. Rispondevo sempre così, con leggerezza, allo stesso modo in cui, probabilmente avrei risposto “bene”. Se dovevo togliere significato a quella parola, allora tanto valeva divertirsi e sostituirla con il suo opposto. Era il mio tentativo di ribellarmi. Poi c’è stata la fase dell’ottimismo a tutti i costi. Ero intenzionata a stare bene e quindi dovevo formulare questo intento nei miei copioni sociali. Sempre bene. Finalmente mi sono rassegnata all’idea che la domanda non sta a significare esattamente ciò che indica, ma è una forma di cortesia. Un abito da sera. Una decorazione stradale. E allora, stamattina, quando un collega mi ha chiesto “come stai” ed io stavo annaspando ansiosa tra le mie email, mi sono sentita uscire uno smagliante “Bene! Tu?”. Dovevo tagliare corto: avevo fretta di continuare a lavorare--alla faccia dell'era della comunicazione. 

(originalmente pubblicato 14 maggio 2012)