Scrittura femminile

In risposta ad un generoso stimolo di Laura Occhini.

Ma cos’è lo stile? Ed è possibile parlare di stile di una categoria sociale o di genere? Non sarebe più corretto parlare di sitle generazionale o di un certo periodo storico? E, soprattutto, ai giorni nostri, è ancora possibile parlare di femminile e maschile? E così via, potrei farmi prendere la mano dal gioco delle domande e produrre quella che il meraviglioso personaggio Jep Gambardella chiama “fuffa”, nell’ultimo film di Sorrentino “La Grande Bellezza” la cui sceneggiatura e fotografia, entrambi maschili (?) ho adorato. Fuffa accademica aggiungo. Potrei si, ma in realtà desidero darla una risposta, cara Laura, a te che sei capace di stimolarci anche (o dovrei dire persino?) su facebook. Spicciola e possibilmente poco critica (perchè di questi tempi c’è la tendenza a confondere la capacità critica con la critica). 

Quando ho pubblicato il primo libro “Intimo abbecedario” nel 2004, l’editore lo mandò ad una giornalista per chiederle una recensione. A detta di lui, lei rifiutò perchè, il libro era troppo femminile. Spiegandomi la cosa al telefono, lui mi chiarì, forse per rassicurarmi che “sai, è una di quelle femministe vecchio stampo. Mi dispiace. La tua è una scrittura troppo femminile.” 
E così, da allora, iniziai a farci caso a quell’etichetta: “scrittura femminile”. Anche quando il libro fu presentato ad Arezzo, dal Prof. Ricci, docente di linguistica, la mia scrittura fu definita così. Femminile. E perchè, chiesi. Perchè è una scrittura di corpo e sangue, mi disse e definì l’Abbecedario un “Sashazade”. Lì per lì poteva bastare, ma ancora non sentivo di avere la risposta dissetante. Con i nuovi libri, negli anni, la cosa non è cambiata, tanto che io stessa ho iniziato a presentarmi come “scrittrice al femminile” e fare di questo bollino il mio vessillo. Ma nel mio caso l’aggettivo “femminile” non si riferiva all’essere scrittrice di romanzi rosa o di appendice, quanto ad un essere salda nella mia ricerca dell’identità femminile. Nel mio autodefinirmi così volevo andare fino in fondo alla questione, nonostante mi fosse chiaro che la differenza tra femminile e altro, non necessariamente maschile, sia ben poco distinta e distinguibile. Ed ancora meno distinta lo è adesso che invece sappiamo tutti, e molto bene, che sono le donne le principali clienti delle case editrici e che la chicklit, o generi simili, vendono bene e benissimo (guarda il caso “50 sfumature...”). Eppure i termini sono ancora quelli vecchi, e, oserei dire, maschilisti. Definizioni attraverso cui si identifica una scrittura che si, può persino essere gradevole e interessante, ma sarà sempre relegata ad un livello che l’eccellenza non la potrà raggiugnere (è mai stato dato un Noble ad una scrittrice “femminile”?).

Ho richiamato alla mente le sensazioni datemi da Calvino, Dostojevski, Shakespeare, o Eliot e poi ho pensato alla Woolf di Orlando, alla Yourcenar o alla Nothomb. Certo, di fronte a questi nomi arretro. E se sono scrittori loro, io sono una scalpellina, una lavapiatti accanto ad uno chef. Ma fatta questa dovuta precisazione, ritengo che ciò che caratterizza la mia scrittura è l’essere intellettualmente carnale. Una scrittura che cerca una stretta di mano, che non sfugge e non si nasconde dietro alla trama. Una scrittura ostinata nel rifiutare i parametri maschili di ciò che è femminile. Una scrittura che vuole graffiare i taboo imposti dalla letturatura maschile sul corpo femminile tipo il divieto di maleodorare, invecchiare, masturbarsi o persino godere senza bisogno di uomo. Una scrittura pragmatica, di chi scrive mentre sente le urla, non tanto del figlio, quanto del senso di colpa, inflitto da chi vuole giudicarti per controllarti.

(originalmente pubblicato 17 luglio 2013)