Riflessioni sul "non"

Non mettere i gomiti a tavola. Non parlare con il boccone in bocca. Non sudare. Non fare tardi.

E ancora: non desiderare la donna d’altri, non commettere atti impuri, non dichiarare il falso…

Dai genitori alla religione, dagli insegnanti ai compagni di vita, la personalità e il corpo sono stati istruiti attraverso infiniti “non”. E tanta e tale diventa l’abitudine alla particella privativa che trovatisi adulti, nell’area elettrica del dover essere (più così e meno cosà) adottiamo il comportamento del “non” a presunta tutela del nostro e altrui benessere: non devo fumare, non devo chiamare, non devo rispondere. E ancora: non ti preoccupare, non ci pensare, non puoi farti scappare quest’occasione, non puoi assillare così. Fino ad arrivare ai “non” che intimidiscono per la loro aspirazione all’infinito: non ho tempo, non ho parole, non ce la faccio più, non lo so, non ti amo più.

NON mi ero mai resa conto di quanti “non” mi avessero plasmata—corpo e mente (e come donna ne ho subiti di più: non stare a gambe larghe che sta male) ma ero inevitabilmente consapevole dell’eccesso del mio universo. Innanzitutto linguistico in quanto fermamente convinta che ogni realtà abbia origine nella parola che la definisce. Così ecco concedermi a sorpresa uno spazio protetto in cui la negazione diventa un’oasi e non ha più bisogno di altri sostantivi o verbi al seguito.Finalmente raggiunta la sua maturità, adesso la negazione si basta da sola e mi concede di non definirmi, mi permette di non essere e soprattutto di non cercare significati.

Ne ho visti i segnali in più ambiti e forme: dal movimento dei no-logo (quelli che si rifiutano di indossare qualsiasi cosa che abbia su stampato il marchio del produttore), alla non-ciclopedia (un’enciclopedia dove non si trovano né notizie, né dati, né parametri), ai quelli che rivendicano il diritto di non fare sesso, fino ai mangiatori per negazione: no carne, no pesce, no latticini… La negazione non solo concede, ma addirittura esalta e nutre smarcando i ceti dalla dittatura della quantità.

E là dove l’arte mi guida nell’intimo viaggio del già sentito, là dove desta sentimenti divini e aspirazioni ipnoticamente sensuali, dove mi umilia ricordandomi di essere granello su un’infinita spiaggia di sabbia, l’arte ancora mi è madre. Mi educa, mi vieta e mi concede. E allora il ‘non’ arriva a smarcarmi, violentarmi con necessarie cesure e temibili libertà, mi ritorna nell’universo pre-uterino dove non c’è bisogno di definizioni perché il mondo delle parole non regna. Ed è forte quindi la tentazione di sostituire il mio semptirerno ed ossessivo motto di vita—divieni ciò che sei—con un nuovo dictat: cercati in ciò che non sei.

(originalmente pubblicato 27 agosto 2009)