L'università

La laurea è un passaporto, il più delle volte falso, per la propria carriera. Vedo i nuovi studenti iscriversi all’Università con le stesse speranze che immagino abbiano i profughi quando s’imbarcano sulle lance illegali. Ma più presuntuosi. Si aspettano che una volta approdati, una volta ottenuto il permesso di soggiorno tutto sarà più facile. Tutto gli spetta, perché la laurea garantisce loro una nuova identità. Un visto che li liberi dalle insicurezze adolescenziali. E così osservo l’Università scaricare laureati senza tregua e, dalla riforma, sempre più in fretta. Non potendo mantenere l’illusione di un posto di lavoro, come viene lasciato intuire al momento delle immatricolazioni, mamma Università se li riprende nel proprio ventre, come ricercatori, contrattisti, amministrativi—enzimi digestivi delle entrate statali. L’Università è un organismo vivente che si auto nutre. Produce regolarmente bandi di concorsi, graduatorie, valutazioni, punteggi e mille altre creative classificazioni. E così le piccole operaie del sapere—spesso donne che accettano il ruolo di amministrative per rispondere alla chiamata alle armi della maternità—si arabbattano a prendere due, tre, quattro lauree perchè tanto aumentano il punteggio, perché tanto le tasse si pagano solo in parte e perché intanto possono studiare mentre stanno al lavoro. E così imparano il giudizio e la classificazione e imparano a protestare per i propri stipendi che più loro studiano, più si abbassano nonostante tutti i punteggi e le graduatorie e le stellette d’oro e d’argento. Difficilmente viene valutata la qualità del lavoro. Il risultato non conta. Conta solo il potere ed il modo di ottenrelo in fretta è la visibilità. Più si è visibili, più si è riconosciuti quindi apparentemente necessari. Il lavoratore universitario, docente o no che sia, tende—a volte è costretto—a non cercare la qualità del proprio lavoro ma visibilità. Il docente si arrabatta cercando lavoro fuori dall’università, facendo carriera politica, organizzando convegni con università estere, mantenendo un’attività di consulenza privata. Mille lavori che gli tolgono attenzione ed energie dall’insegnamento e dalla ricerca. L’amministrativo invece, quando non cerca il secondo lavoro, cerca di limitarsi all’indispensabile non sentendosi gratificato né dallo stipendio né dalla struttura gerarchica. Questo non vuol dire che chi arrivi a fare la docenza non sia bravo o meritevole ma che tra le doti necessarie c’è anche quella di procurarsi un protettore e tenerselo stretto fino al raggiungimento dell’obiettivo prefisso. La caparbietà, l’umiltà da una parte e l’arroganza dall’altra, la capacità e la volontà di “sposare” un professore, sono doti necessarie. Ne scapita la ricerca, ma non le pubblicazioni. Si pubblica tanto. Non sono in grado di valutare la qualità delle pubblicazioni, ma nelle classifiche mondiali della ricerca l’Italia non ha riconoscimenti. I docenti più giovani soffrono di stress da pubblicazione. Cercano di stare al passo con i parametri mondiali—che poi sono quelli statunitensi—perdendo di vista la propria, vera, crescita personale in quanto esseri umani, perdendo di vista l’importanza di usare la propria mente, perdendo fiducia in se stessi. D’altra parte, i concorsi pubblici proprio perché pilotati—salvaguardano il personale da assumere—docente e non docente. Mi chiedo soltanto se non fosse più efficace togliere l’impressione di imparzialità e limitarsi a selezioni tramite interviste/colloqui e esperienze professionali. D’altra parte il figlio del sindaco troverà sempre lavoro. Per cambiare un po’ le cose abbiamo importato il sistema accademico americano: crediti, conteggi esatti di ore frontali, semestri, syllbus, ranking e persino la valutazione. Stiamo persino facendo i campus in una nazione che ha il triplo della densità di quella statunitense pieno di siti archeologici, di trasporti pubblici malfunzionanti e di strutture vecchie e difficilmente riadattabili. E’ come mettere jeans attillati ad una signora di 93 anni. Magari riesce anche a starci in piedi, ma certo non ci sta comoda. E mi rammarico persino per queste mie parole. Ho avuto, tra i miei professori, personaggi eccellenti, e grandi insegnanti a cui devo molto. L’Università mi ha dato la libertà e alla fine, se sono qui a scrivere questo, lo devo anche ai miei vecchi professori. Solo forse, sono stanca di tutto questo parlare, dibattere, riformare, stanca di vedere che più passa il tempo più la laurea prende il valore di un diploma di scuola superiore. Con i genitori sempre più coinvolti, sempre più presenti, a fare la fila, a pagare le tasse, a discutere sul voto. Presumo che di qui a cinque, forse dieci anni sarà d’obbligo per tutti avere un dottorato e non certo perché con questi si impari di più o meglio a fare il proprio lavoro, ma perché appunto la laurea avrà raggiunto il valore di un diploma di scuola superiore. Così io continuo a sognare e ogni tanto mi diverto a chiacchierare con i miei vecchi professori universitari, tutti, paradossalmente, d’accordo con me. Sogno un’Università non professionalizzante. Un’ Università che non dia l’illusione che il sapere si può giudicare. Un’Università che non creda esclusivamente nell’intelletto. Sogno un’Università che insegni ad essere rispettosi, a conoscere il proprio corpo e la propria mente, e a riconoscere i miracoli quotidiani. Sogno un’Università che insegni il silenzio e la leggerezza. Soprattutto sogno un’Università che liberi dai condizionamenti. Ho visto troppi docenti ambire e diventare professori per riuscire a sostenere, dietro alla corazza della cattedra, la propria insostenibile insicurezza. Salvo poi accorgersi, anche da ordinari, che niente placa quell’ansia, nemmeno la politica—a cui si dedicano i presunti “arrivati” una volta che si accorgono che dietro al picco c’è un’altra montagna. Sogno una laurea in serenità, con specializzazione in buonumore. E soprattutto sogno una laurea con un limite d’ingresso: impossibile iscriversi prima dei quarant’anni, perché è a quarant’anni che si è capito bene cosa si vuol fare da grandi.

(originalmente pubblicato 9 agosto 2007)