Sulla lettura

Non mi sembra proprio, come ho sentito spesso dire, che non si legga più. Mi pare questa al contrario l'epoca della iper-lettura. Siamo sempre a leggere, dagli sms, alle istruzioni per una vita sana sulla scatola dei Corn Flakes. Un boccone di giornale con il cappuccino, una sniffata di pubblicità sull’autobus, mentre si sbircia la pagina del vicino e si controlla la Time Line di Twitter. Poi per strada, manifesti, onoranze funebri, locandine, pubblicità, graffiti, autoadesivi sulle macchine. Biglietti da visita lasciati in giro come le cacche dei cani di padroni arroganti. E in ufficio, dove anche i quadri oramai hanno frasi-motto-incoraggiante, oltre alle mail, alla chat, ai fax, alle lettere, ai post-it e agli sms, ci sono le istruzioni, i manuali, i banner, i tag e gli immancabili e oramai invisibili cartelli di divieto: “vietato fumare” oppure “si prega cortesemente di non gettare gli assorbenti nel wc” o ancora, sulle porte dei bagni, sesso come sulle bancherelle del mercato “paghi uno prendi tre”.           

Parole, norme, sigle, consigli, acronimi appesi, incollati, infilati dovunque, con le stampanti e le fotocopiatrici sempre in azione, pronte a riprodurre. E noi leggiamo senza tregua, senza difesa, perché la lettura è una malattia cronica, una volta che hai imparto non puoi più smettere. E ha ragione Stephen King allora nel suo “On Writing” dove ci spiega—per chi non se ne fosse accorto—che non è lo scrittore a creare i personaggi, ma che loro hanno una vita propria. Lo scrittore come un archeologo, deve solo riportarli alla luce e tanto più delicato e attento sarà, tante più saranno le probabilità di estrarre dalla memorie della terrra un bel dinosauro tutt’intero che, trasportato al museo giusto, attirerà molti visitatori. Ed è per questo quindi che scriviamo tutti e siamo tutti scrittori, dalla lista della spesa in su, per riuscire a gestire e digerire tutte quelle parole che ci intasano il cervello dal quel fatidico momento in cui ci hanno insegnato a leggere. E sono anche certa che il successo di google è dovuto soprattutto al fatto che sulla sua homepage non c’è scritto nulla. Per vendere di più gli editori dovrebbero difendere i propri lettori dalla guerra delle parole. Quello che loro, gli editori, rivendicano in realtà è la continuità. Leggere la stessa cosa per un po’, tipo un libro, appunto. Concedere il proprio tempo allo scrittore per più di due paragrafi, più di 38 secondi. Ed è quindi anche per questo che i libri più venduti sono quelli che tengono il fiato sospeso. Il bravo autore si preoccupa, secondo i cliché del manuale del bravo amante, di procurare orgasmi multipli. Ma il lettore non sarà mai completamente appagato in realtà, e continuerà a cercare le sue parole altrove per trovare, finalmente, un po’ di silenzio. E questo senza tregua e dovunque, persino tra i propri tatuaggi.

(originalmente pubblicato 22 febbraio 2007)