Il mio nome

Essendo mia mamma cittadina di Belgrado e fortemente desiderosa di comunicare al mondo il suo orgoglio di esserlo, ha pensato bene che doveva lasciare una traccia più forte di quella del sangue ed ha deciso di darmi un nome della sua terra natale: Saša appunto. Io approvo e la capisco ma il nome, insieme alle labbra un po’ troppo carnose, è stato uno dei miei complessi maggiori fino alla maggiore età. L’ho supplicata per anni, da piccola, di chiamarmi Francesca, ma non l’ho spuntata, nemmeno quando facevo la brava-brava. Il problema maggiore non era solo come la gente pronunciasse il mio nome—sciascia, ciasha, saccia…--o che per strada, almeno quando ero piccola, si sentissero chiamare così solo dei cani, ma il fatto che tutte le stampanti di tutti gli enti pubblici non potessero imprimere quel maledetto accentino che mi ritrovavo sopra la seconda lettera del nome per cui, a tutt’oggi, io ero e sono il Sig. Sasa. Poco piacevole, soprattutto per una come me che alle parole dà importanza. 
 
Stanca di essere non-chiamata ho deciso di adottare un’acca e farla mia (doppia identità, doppia firma, doppio divertimento), per lo meno nei documenti non ufficiali. L’acca ha miracolosamente risolto i dubbi fonetici di chi mi volesse chiamare, tolto gli imbarazzi di chi usava giri di parole per riferirsi a me ed ha permesso alle due identità di ricongiungersi con sommo dispiacere del mio psicanalista. Adesso rimane il problema del libro--e dei meticolosissimi motori di ricerca--la me scrittrice ha voluto il nome originale, ma l'altra me ha preferito la versione con l’acca (sempre meglio che SASA senza niente). Ad oggi il dilemma è irrisolto. Posso solo sperare che qualche superstar di Hollywood col mio stesso nome diventi super-famosa così che quel nome—sarebbe ancora mio?--possa divulgarsi fino ad essere scritto e pronunciato come si era pensato in origine. In fondo con le labbra è successo così: adesso se le fanno siliconare tutte e io mi tengo il mio canotto. Comunque, gli amici mi chiamano sà e io mi firmo s. così faccio contente tutte le mie me (anche Francesca).
 
s.
 
PS Fortuna che non mi ha chiamato come mia cugina, che si chiama Milica, ma si pronuncia Miliza (con la z dolce di zucchero).

(originalmente pubblicato 8 luglio 2010)

La costruzione dell'identità e social network

Usare e “stare” sui social network ha amplificato il mio radicato interesse per il tema della costruzione e percezione dell’identità. Come molti, anche io mi sono chiesta pechè tutto questo successo dei social? Perchè siamo tutti lì a dire cosa abbiamo mangiato, dove siamo andati e cosa sognamo? Perchè far sapere agli altri i nostri gusti musicali? E Perchè questo ossessivo bisogno di condividere? 

Mi pare di intuire che gran parte di questo successo è dovuto al fatto che sui social media noi possiamo costruire, plasmare e, apparentemente, controllare le nostre identità. Possiamo diventare supereroi, possiamo esplorare gli aspetti più oscuri della nostra personalità, in incognito—sempre presunto ovviamente perchè, si sa, niente in rete è veramente in incognito.  Su Twitter per esempio, vedo che tra i tanti, tantissimi, che si identificano indicando un nome e cognome (non necessariamente veri) c’è anche un “buonoanullo” un “lama elegante” un “signor nessuno” un “MisterX”,  un “Diavolo”, un “Dio” una “ballodasola”, una “solostronza” e una “corposenzatesta”. Giusto per citarne qualcuno. Una bella signora sposata, scrive nella bio “fighting 40+, UK” e posta foto più o meno porno con o senza lingerie. Il suo modo di contrastare la crisi d’identità che accompagna la pre-menopausa. Ognuno si dedica liberamente a diventare ciò che vuole o che forse non può essere nel quotidiano. Twitter è la trasgressione potenziale, il travestimento drag accessibile, facile e gratuito. Mentana, di recente, con il suo annuncio pubblico di cancellarsi da twitter denunciava proprio questa potenziale scorrettezza di poter offendere chiunque senza però esporsi—anche se sappiamo bene che la censura c’è anche su twitter. E poi ci sono le scappatelle, i flirt, il sesso virtuale. Twitter funziona anche meglio dei siti d’incontri. 

Ci sono quelli che preferiscono Facebook e quelli che preferiscono Twitter. La grande differenza, la maggiore direi, tra i due social è che su FB si tende a modificare l’identità reale. Ovverosia ad imbellire l’io quotidiano, filtrando accuratamente cosa postare e cosa non, quali foto taggare, quali citazioni condividere. In base all’idea che abbiamo dell’io desiderabile (ricco, magro, viaggiatore, politico, pubblico, misterioso, intellettuale, simpatico...) aggiungiamo pezzetti di un puzzle immaginario che ci rappresenta così come riteniamo di voler essere. Al contrario, twitter—che non richiede veri o presunti amici come pubblico, ma predilige gli sconosciuti--si presta molto meglio a costruire un’identità completamente nuova e spesso del tutto staccata dall’io quotidiano e, attraverso questa, permette di esplorare soprattutto chi poter essere. Non è certo un caso che, sempre più spesso, chi deve assumere del personale, controlli in rete chi o cosa questa persona sia e l’immagine di sé che il candidato vuole dare. E a voler cascare nella trappola di un “prima e un dopo”, prima di questo boom dei social, l’identità veniva costruita attraverso l’album fotografico e i filmini delle vacanze o del matrimonio. Adesso attraverso i social network e di questi tempi è più pressante e vitale esistere in rete che esistere nella realtà. Penso al famoso adagio, se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente, fa rumore? Egualmente, se qualcuno esiste, ma non è visibile in rete, non è contattabile, non è rintracciabile, esiste sul serio?

Il 24 maggio 2012 al New Museum di New York, l’artista Constant Dullaart ha voluto puntare il dito su questo fenomeno in modo provocatorio e ha reso pubblica la password necessaria per accedere al suo account Facebook. Da quel momento, non ha più avuto alcun controllo sul suo account. Su questa scia, l’artista tedesco, Tobias Leingruber, ha fondato il Social ID Bureau, un servizio che mette a disposizione carte d’identità basate sulla nostra presenza nei social network. Nato come Facebook ID Bureau e lanciato con una performance a Berlino nel marzo scorso, il progetto ha immediatamente stimolato la risposta legale di Facebook (vedi anche questo articolo).

E così le mie riflessioni continuano. Cosa vuol dire, di questi tempi la parola “identità”? E come ci possiamo identificare adesso che anche l’identità è diventata, citando Bauman, liquida? Ma soprattutto, adesso che possiamo non-essere e cambiare chi essere come cambiamo abiti, che rappresentazione del reale cercheremo?

(originalmente pubblicato 13 giugno 2013)

La dittatura della felicità

Tempo fa ho messo sul mio profilo FB una foto scattata al lavoro dalla webcam. Subito arrivati commenti: “sei più bella quando sorridi”, “bella, ma seriosa”, “che aria triste!”…  E pensare che a me quella foto piace. Avevo scelto proprio quella perché mi vedevo tranquilla e soprattutto me stessa. Né più né meno. Ho risposto ai commenti rivendicando il mio diritto al muso lungo e per un po’ ho lasciato la foto lì. 

Ieri invece una mia amica mi ha chiesto se ero felice. Lì per lì non sapevo bene cosa risponderle. Mi pareva una di quelle domande che ci si fanno in quell’età in cui si decide chi si vuol essere da grandi. Ho fatto un inventario dei miei desideri e si, più o meno c’erano tutti. Mi sono creata la vita che ho desiderato, e questo mi ha garantito la felicità? Ci ho pensato bene e mi sono resa conto che la felicità non è tra le mie priorità. Non che mi piaccia essere infelice, tutt’altro, ma certo non rincorro la felicità. Se proprio devo trovarne uno, il mio imperativo di vita, la mia priorità, la mia necessità fisica, emotiva e mentale è quella di essere me stessa. E se questo implica avere il muso lungo, che muso lungo sia! 

E allora mi sono resa conto che essere infelici è un tabù, una malattia, un divieto. Quasi peggio che essere grassi. O vecchi. Quasi. E nelle giornate un po’ storte poi viene da chiedersi dove abbiamo sbagliato, noi, divinità pagane senza altari e senza carnevali. Perché in quei casi la presunta infelicità può addirittura diventare una colpa. La pubblicità è diventata la realtà e lo schermo è la norma. Non c’è più distanza tra surreale, virtuale e tangibile, se non fosse che per un'unica barriera, non solo semantica: le emozioni. Proviamo ancora emozioni, nonostante i denti bianco Dixan, i seni Saratoga, le ciglia lunghe come un’autostrada, i ventri di plastica come Big Jim e i capelli alla Wintour. E queste emozioni, a volte, si permettono di essere diverse dal copione fornito dal Grande Fratello. Come: non ridi? E perché mai? Ce l’hai la macchina, la casa, la barca, la carriera, la foto al mare caraibico, il libro pubblicato? E allora che ti manca per essere felice? Non mi manca niente, nemmeno una lista di desideri, semplicemente, molto semplicemente, evitare la trappola della felicità mi alleggerisce l’animo. Vuoi mettere? Buoni sorrisi!

(originalmente pubblicato 29 febbraio 2012)