Il mio nome

Essendo mia mamma cittadina di Belgrado e fortemente desiderosa di comunicare al mondo il suo orgoglio di esserlo, ha pensato bene che doveva lasciare una traccia più forte di quella del sangue ed ha deciso di darmi un nome della sua terra natale: Saša appunto. Io approvo e la capisco ma il nome, insieme alle labbra un po’ troppo carnose, è stato uno dei miei complessi maggiori fino alla maggiore età. L’ho supplicata per anni, da piccola, di chiamarmi Francesca, ma non l’ho spuntata, nemmeno quando facevo la brava-brava. Il problema maggiore non era solo come la gente pronunciasse il mio nome—sciascia, ciasha, saccia…--o che per strada, almeno quando ero piccola, si sentissero chiamare così solo dei cani, ma il fatto che tutte le stampanti di tutti gli enti pubblici non potessero imprimere quel maledetto accentino che mi ritrovavo sopra la seconda lettera del nome per cui, a tutt’oggi, io ero e sono il Sig. Sasa. Poco piacevole, soprattutto per una come me che alle parole dà importanza. 
 
Stanca di essere non-chiamata ho deciso di adottare un’acca e farla mia (doppia identità, doppia firma, doppio divertimento), per lo meno nei documenti non ufficiali. L’acca ha miracolosamente risolto i dubbi fonetici di chi mi volesse chiamare, tolto gli imbarazzi di chi usava giri di parole per riferirsi a me ed ha permesso alle due identità di ricongiungersi con sommo dispiacere del mio psicanalista. Adesso rimane il problema del libro--e dei meticolosissimi motori di ricerca--la me scrittrice ha voluto il nome originale, ma l'altra me ha preferito la versione con l’acca (sempre meglio che SASA senza niente). Ad oggi il dilemma è irrisolto. Posso solo sperare che qualche superstar di Hollywood col mio stesso nome diventi super-famosa così che quel nome—sarebbe ancora mio?--possa divulgarsi fino ad essere scritto e pronunciato come si era pensato in origine. In fondo con le labbra è successo così: adesso se le fanno siliconare tutte e io mi tengo il mio canotto. Comunque, gli amici mi chiamano sà e io mi firmo s. così faccio contente tutte le mie me (anche Francesca).
 
s.
 
PS Fortuna che non mi ha chiamato come mia cugina, che si chiama Milica, ma si pronuncia Miliza (con la z dolce di zucchero).

(originalmente pubblicato 8 luglio 2010)

Gelosia

Non sono gelosa. Mi sono educata a non esserlo. Con determinazione. Essere geloso è sintomo d’incapacità di controllo, di ossessività. Un atteggiamento esecrabile, persino demodé. Non si può essere gelosi, no, ovvio. Ma perché? Perché la gelosia disturba l’altro, l’oggetto di questo sentimento. Implica una restrizione di libertà, un controllo e allora arriva il veto: non permetterti di essere geloso. Non esiste un verbo che descriva il sentimento, tipo “gelosire” o “gelosare”. La gelosia è uno stato dell’essere non un’azione. Eppure, l’altro giorno, ho visto mio figlio, di sedici mesi, generalmente allegro, simpatico, di buon umore e sorridente arrabbiarsi con forza perché la figlia della nostra vicina di casa—della stessa età—aveva preso a giocare con i suoi balocchi. Non l’avevo mai visto arrabbiato. Prendeva i giochi dalla mano della bimba, gridando un determinato “no!” e scansando lo sguardo interrogativo di lei. Ho sorriso, un po’ imbarazzata sul da farsi perché è in quel momento che mi sono resa conto che alla non gelosia (qual è il contrario di gelosia?) l’avrei dovuto educare, imponendo ai suoi naturali istinti una limitazione. Culturale. Dovrò iniziare una lenta e costante opera di convincimento attraverso cui ridirigere il suo naturale istinto di possessività e protezione, e insegnargli che ciò che lui prova è sbagliato. E allora, guardandomi bene indietro mi sono accorta che la mia personale educazione alla non gelosia aveva qualche falla: a ben vedere, tracce di gelosie innocue qua e là erano apparse, ma le avevo stoicamente ignorate per tornare ad essere la brava bambina educata che gelosa non è. Per non disturbare e soprattutto per continuare a ricevere approvazione.

Se in una foresta

Chiede il famoso adagio:

Se in una foresta un albero cade e nessuno è lì a sentire, possiamo dire che l’albero è caduto?

Così, un clik, un like, un tweet, un post. Ci sono, eccomi. Esisto. Dimmi che esisto.

E allora possiamo aggiornare la domanda:

se qualcuno esiste e nessuno lo linka, lo follow, lo like, o lo tagga, possiamo dire che quel qualcuno esiste?

E ancora, se tutti gli alberi della foresta cercano testimoni della loro esistenza—e più grossi gli alberi maggiore il numero di testimoni necessari—chi si occupa di esistere?

(originalmente pubblicato 17 gennaio 2012)

Google

Scrive il mio amico FeDE che google è estensione della coscienza più che della conoscenza. Concordo. Troviamo lì conferma non solo della nostra esistenza (esisto se non sono su google?), ma anche dei nostri dubbi, delle nostre paure. Possiamo chiedergli ogni tipo di domanda e lui non si sconvolge. Lui ha sempre qualcosa da dire e offrire, non delude. E se anche non trova la risposta alla tua domanda ti offre sempre alternative appetibili. “se frullo bolle di sapone e foglie di jojoba, mi vanno via i brufoli?” Lui ti risponderà. “se ascolto videomusic ininterrottamente per otto anni diventerò famoso come Guetta?” Lui ti risponderà. “Se mi trasferisco in Taiwan e vado ad insegnare corsi di breakdance stile ’80, riuscirò a comprarmi un grattacielo?” Google avrà una risposta per te. Puoi persino chiedergli se il tuo lui/la tua lei ti ama/ti fa le corna. Meglio di una margherita, meglio della Magic 8-ball (e se non sapete cos'è googlate), meglio dell'amica di mamma cartomante. A volte mi diverto a digitare lettere a caso, alla cieca e googlarle e lui, trova sempre, immancabilmente qualcosa da spiegarmi e riesce anche a stimolare il mio interesse. Forse allora, più che estensione della mia coscienza, direi quasi è estensione di tutto ciò che la mia coscienza non sa ancora di poter essere o desiderare.

(originalmente pubblicato 21 gennaio 2012)

Concordia

La concordia era una nave. No. La concordia era una città. Bel nome per una città. Una città di metallo, legno, vetro e plastica. Una città che è affondata. No. Una città che è cascata su un fianco, come un animale abbattuto: quando casca, non si rialza più. E così è lì, sfiancata. I motori si sono fermati, la musica è affogata. E lei è rimasta così, mezza coperta e mezza in mostra. La concordia era un urlo orgoglioso contro al mare. Diceva, non mi fai paura. Io sono grande. Grande come una città. L'hanno costruita così. Una città in mare, per poter spostare un po' più in là l'orlo della gonna di mamma terra ferma. E la città si è trasformata, in labirinto. Corridoi come intestini, da percorrere per trovare la conferma della morte. E il filo di Arianna, non è stato tessuto con la speranza. La concordia era la promessa di felicità, di foto da mostrare, di sorrisi da mettere in tasca e conservare per gli ospiti buoni. La sotto regna il silenzio della placenta marina, mentre sopra continuano le urla di altre città. Concordia era il sinonimo di armonia e pace. No. Non più. Non solo.

(originalmente pubblicato 25 gennaio 2012)

Intimità

L'intimità spaventa perché ci espone. Cos’è più temibile del mostrare che si ha paura? Che si è esattamente come pensiamo non dovremmo essere? Forse è per questo che nei miei libri mi metto a nudo. Per liberarmi dai vincoli di una competizione senza premi. Eppure il “non gioco più” non sempre funziona. Anche farsi da parte, non salvaguarda. E allora tanto vale tornare a proteggersi. Si può dire tutto a tutti, condividere intimità con sconosciuti. Fabio Volo mi racconta (insieme ad altre 300.000 e passa persone) delle sue emozioni mentre passeggia per Roma e io racconto ad un tale Abdul, che non ho mai conosciuto e mai conoscerò, le cose positive delle mie giornate. Tutti intimi. Tutti protetti. Si sono ribaltati i parametri, come in un carnevale emotivo. L’intimità è necessariamente pubblica e non è più temibile, e la formalità parrebbe la nuova frontiera dell’onestà. Se non fosse che, a stringere la mano alla formalità, si ghiaccia il cuore.

(originalmente pubblicato 28 gennaio 2012)

La costruzione dell'identità e social network

Usare e “stare” sui social network ha amplificato il mio radicato interesse per il tema della costruzione e percezione dell’identità. Come molti, anche io mi sono chiesta pechè tutto questo successo dei social? Perchè siamo tutti lì a dire cosa abbiamo mangiato, dove siamo andati e cosa sognamo? Perchè far sapere agli altri i nostri gusti musicali? E Perchè questo ossessivo bisogno di condividere? 

Mi pare di intuire che gran parte di questo successo è dovuto al fatto che sui social media noi possiamo costruire, plasmare e, apparentemente, controllare le nostre identità. Possiamo diventare supereroi, possiamo esplorare gli aspetti più oscuri della nostra personalità, in incognito—sempre presunto ovviamente perchè, si sa, niente in rete è veramente in incognito.  Su Twitter per esempio, vedo che tra i tanti, tantissimi, che si identificano indicando un nome e cognome (non necessariamente veri) c’è anche un “buonoanullo” un “lama elegante” un “signor nessuno” un “MisterX”,  un “Diavolo”, un “Dio” una “ballodasola”, una “solostronza” e una “corposenzatesta”. Giusto per citarne qualcuno. Una bella signora sposata, scrive nella bio “fighting 40+, UK” e posta foto più o meno porno con o senza lingerie. Il suo modo di contrastare la crisi d’identità che accompagna la pre-menopausa. Ognuno si dedica liberamente a diventare ciò che vuole o che forse non può essere nel quotidiano. Twitter è la trasgressione potenziale, il travestimento drag accessibile, facile e gratuito. Mentana, di recente, con il suo annuncio pubblico di cancellarsi da twitter denunciava proprio questa potenziale scorrettezza di poter offendere chiunque senza però esporsi—anche se sappiamo bene che la censura c’è anche su twitter. E poi ci sono le scappatelle, i flirt, il sesso virtuale. Twitter funziona anche meglio dei siti d’incontri. 

Ci sono quelli che preferiscono Facebook e quelli che preferiscono Twitter. La grande differenza, la maggiore direi, tra i due social è che su FB si tende a modificare l’identità reale. Ovverosia ad imbellire l’io quotidiano, filtrando accuratamente cosa postare e cosa non, quali foto taggare, quali citazioni condividere. In base all’idea che abbiamo dell’io desiderabile (ricco, magro, viaggiatore, politico, pubblico, misterioso, intellettuale, simpatico...) aggiungiamo pezzetti di un puzzle immaginario che ci rappresenta così come riteniamo di voler essere. Al contrario, twitter—che non richiede veri o presunti amici come pubblico, ma predilige gli sconosciuti--si presta molto meglio a costruire un’identità completamente nuova e spesso del tutto staccata dall’io quotidiano e, attraverso questa, permette di esplorare soprattutto chi poter essere. Non è certo un caso che, sempre più spesso, chi deve assumere del personale, controlli in rete chi o cosa questa persona sia e l’immagine di sé che il candidato vuole dare. E a voler cascare nella trappola di un “prima e un dopo”, prima di questo boom dei social, l’identità veniva costruita attraverso l’album fotografico e i filmini delle vacanze o del matrimonio. Adesso attraverso i social network e di questi tempi è più pressante e vitale esistere in rete che esistere nella realtà. Penso al famoso adagio, se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente, fa rumore? Egualmente, se qualcuno esiste, ma non è visibile in rete, non è contattabile, non è rintracciabile, esiste sul serio?

Il 24 maggio 2012 al New Museum di New York, l’artista Constant Dullaart ha voluto puntare il dito su questo fenomeno in modo provocatorio e ha reso pubblica la password necessaria per accedere al suo account Facebook. Da quel momento, non ha più avuto alcun controllo sul suo account. Su questa scia, l’artista tedesco, Tobias Leingruber, ha fondato il Social ID Bureau, un servizio che mette a disposizione carte d’identità basate sulla nostra presenza nei social network. Nato come Facebook ID Bureau e lanciato con una performance a Berlino nel marzo scorso, il progetto ha immediatamente stimolato la risposta legale di Facebook (vedi anche questo articolo).

E così le mie riflessioni continuano. Cosa vuol dire, di questi tempi la parola “identità”? E come ci possiamo identificare adesso che anche l’identità è diventata, citando Bauman, liquida? Ma soprattutto, adesso che possiamo non-essere e cambiare chi essere come cambiamo abiti, che rappresentazione del reale cercheremo?

(originalmente pubblicato 13 giugno 2013)

La dittatura della felicità

Tempo fa ho messo sul mio profilo FB una foto scattata al lavoro dalla webcam. Subito arrivati commenti: “sei più bella quando sorridi”, “bella, ma seriosa”, “che aria triste!”…  E pensare che a me quella foto piace. Avevo scelto proprio quella perché mi vedevo tranquilla e soprattutto me stessa. Né più né meno. Ho risposto ai commenti rivendicando il mio diritto al muso lungo e per un po’ ho lasciato la foto lì. 

Ieri invece una mia amica mi ha chiesto se ero felice. Lì per lì non sapevo bene cosa risponderle. Mi pareva una di quelle domande che ci si fanno in quell’età in cui si decide chi si vuol essere da grandi. Ho fatto un inventario dei miei desideri e si, più o meno c’erano tutti. Mi sono creata la vita che ho desiderato, e questo mi ha garantito la felicità? Ci ho pensato bene e mi sono resa conto che la felicità non è tra le mie priorità. Non che mi piaccia essere infelice, tutt’altro, ma certo non rincorro la felicità. Se proprio devo trovarne uno, il mio imperativo di vita, la mia priorità, la mia necessità fisica, emotiva e mentale è quella di essere me stessa. E se questo implica avere il muso lungo, che muso lungo sia! 

E allora mi sono resa conto che essere infelici è un tabù, una malattia, un divieto. Quasi peggio che essere grassi. O vecchi. Quasi. E nelle giornate un po’ storte poi viene da chiedersi dove abbiamo sbagliato, noi, divinità pagane senza altari e senza carnevali. Perché in quei casi la presunta infelicità può addirittura diventare una colpa. La pubblicità è diventata la realtà e lo schermo è la norma. Non c’è più distanza tra surreale, virtuale e tangibile, se non fosse che per un'unica barriera, non solo semantica: le emozioni. Proviamo ancora emozioni, nonostante i denti bianco Dixan, i seni Saratoga, le ciglia lunghe come un’autostrada, i ventri di plastica come Big Jim e i capelli alla Wintour. E queste emozioni, a volte, si permettono di essere diverse dal copione fornito dal Grande Fratello. Come: non ridi? E perché mai? Ce l’hai la macchina, la casa, la barca, la carriera, la foto al mare caraibico, il libro pubblicato? E allora che ti manca per essere felice? Non mi manca niente, nemmeno una lista di desideri, semplicemente, molto semplicemente, evitare la trappola della felicità mi alleggerisce l’animo. Vuoi mettere? Buoni sorrisi!

(originalmente pubblicato 29 febbraio 2012)

Sull'identità

In una delle scene finali di “Tutto su mia madre”, famoso film di Almodovar, Agrado, uno/a dei protagonisti, racconta quanto le è costato trasformarsi da uomo a donna e conclude commentando: “si è se stessi tanto più ci si avvicina all’idea che di sè si ha”.

Si passa una vita intera cercando un’identità, un piccolo cassetto in cui infilarsi per sentirsi al sicuro. S’inizia con la squadra di calcio del cuore, il segno zodiacale e il colore preferito. Poi si passa a io sono di sinistra, io sono buddista, io sono un ferrarista oppure ancora io sono un invalido o io sono un avvocato. La professione è fondamentale per definire la propria identità. Persino i precari, gli ex cococo, i contrattisti o gli stagionali persino loro, prima o poi, sulla carta d’identità devono indicare qualcosa. Anche solo: disoccupato. E poi: io non mangio carne o ancora, io colleziono unghie rotte. Ci si mette fatica, s’indaga si cerca di fare amicizia con quell’essere misterioso che ci abita e c’inganna facendoci credere che si può diventare ciò che vorremmo essere. Così ci portiamo al guinzaglio in giudizi, comparazioni e voti. Più magro, più alto, più forte, più arrendevole, meno esile, meno imponente, meno buono… Ogni giorno mettiamo un più o un meno alla nostra presunta identità caricandola di valori elettrici proprio come delle pile pronte ad illuminare l’infinito del non essere. C’è chi scrive, chi va dallo psicologo, chi dalla cartomante, chi ancora dal parroco e chi diventa gay. Personalmente le ho provate quasi tutte, persa tra due nomi, tre lingue, tre culture, 32 lavori e 16 cambi d’indirizzo. E poi… se qualcuno mi etichetta, mi da fastidio. Un senso claustrofobico mi assale. L’identità. Ma io, chi sono io? E soprattutto, chi dovrei essere per essere me stessa? Sarebbe bello avere Giorgio, Gaber, e cantarne con lui. Ma non c’è più. 

Agrado cara allora, una domanda per te, tu ti fidi di te stessa quando ti dici chi devi essere?

(originalmente pubblicato 12 marzo 2007)

Destino e responsabilità

Ci riteniamo responsabili della nostra personalità, almeno in parte, e del nostro destino. Se sono pigra, o aggressiva o… qualsiasi cosa venga considerato negativo in un questo momento storico, è colpa mia. Forse un pochino anche dei miei genitori, ma il senso generale è che dovrei darmi da fare per cambiare. Questa dinamica di giudizio si applica con maggiore forza, ho notato, soprattutto quando si tratta della capacità di controllarsi con il cibo. Gli obesi vengono criticati, anche se non sempre apertamente, perché ritenuti responsabili della loro condizione. Allo stesso modo, i medici, costretti ad alzare le mani e dare una risposta alle nostre mille impazienti domande, adducono spesso la causa che ha scatenato questo o quel problema di salute, allo stress. Come a dire: se tu fossi in grado di controllarti, di cambiare le tue abitudini, di essere più disciplinata, avresti meno stress nella tua vita e quindi non avresti quel problema. In other words: colpa tua. Eppure non riesco a credere che certi tratti del carattere siano dovuti a precisi aspetti e (mal)funzionamenti della nostra biologia. 

Ho conosciuto di recente una graziosa young lady, che mi ha colpito non solo per la freschezza, e intensità con cui vive la vita, ma anche per la straordinaria similarità che ha con il mio carattere. Molti tratti in comune, anzi, fin’ora non ho trovato niente di diverso tra noi, se non l’età. Ed è venuto fuori che abbiamo (o avevamo) la stessa patologia cardiaca. Allora mi sono chiesta appunto se tutti i tratti del mio carattere che, a volte almeno, vorrei diversi, non fossero in qualche modo, congeniti e quindi non modificabili—per lo meno non facilmente—proprio come la mia altezza, il colore dei miei occhi, o la dimensione delle mie orecchie. Sull’onda di queste riflessioni, ascoltavo un mio amico, raccontarmi della sua patologia. Questa volta diversa dalla mia. Mi diceva che era ansioso e che il medico gli aveva detto che i sintomi che gli capitavano erano causati dalla sua ansia. E mi chiedevo allora: siamo ansiosi perché abbiamo una certa disfunzione? Oppure abbiamo la disfunzione perché siamo ansiosi? Conclusioni non ne ho. Penso ai casi estremi, a quelli che si allenano a stare nel ghiaccio, senza respirare, a digiunare per mesi… Ci possiamo allenare, abituare, manipolare. Ci possiamo violentare, forzare, imporre. Possiamo persino credere di riuscire a controllare il nostro destino e la nostra vita, forse si… ma alla fine, l’unica grande opportunità mi sembra quella di esplorarsi e spingersi oltre i limiti che ci pare di avere per scoprire tutta la meraviglia che portiamo dentro senza saperlo. Per cui, al prossimo medico che mi dirà che sono stressata risponderò: e pensi che brava, nonostante tutto questo stress, sono ancora qua a fare del mio meglio…

(originalmente pubblicato 17 febbraio 2012)

Lettera per la celebrazione della nascita di mio figlio

Questa lettera l'ho scritta per celebrare la nascita di mio figlio. L'abbiamo distribuita a tutti gli amici e familiari che sono venuti a festeggiare con noi e quel giorno. Abbiamo piantato un albero ed ognuno dei presenti ha contribuito buttando con la pala un po' di terra sulle radici del nuovo piccolo albero. Siamo in tanti a crescere ogni figlio di questa terra. 

"Ecco, finalmente ti scrivo.

Era tanto che volevo farlo e oggi mi sono presa questo tempo. Certo, tu non leggerai queste parole, ma so che i miei pensieri li senti. La scrittura è un bisogno tutto mio. In realtà vorrei abbracciarti e tutto questo te lo direi stando attaccata a te, ma non è possibile.

Sono tanti anni che ti osservo. Ti ho notato per la prima volta sette anni fa, quando sono arrivata in questo paesino che è di campagna, ma sembra di montagna. Lì per lì non ti vidi, perchè la mia attenzione fu attratta dall’enorme masso di pietra ai tuoi piedi. Fui colpita perché lungo quella strada un masso in quel modo proprio non te lo aspetti. E’ un po’ come trovare una duna di deserto in mezzo a un bosco. Non ci sono dirupi da cui possa essere caduto e non c’è niente di simile lì intorno. Un masso così imponente che a guardarlo ci si sente piccoli non per la sua grandezza ma perché s’intuisce il tempo che porta dentro. Così notai prima il macigno e poi, poco dietro, il tuo tronco scuro e grande, che quasi si confondeva con il grande sasso. Allora alzai gli occhi e il tragitto del mio sguardo fu lento e protetto e quando la mia testa fu tutta rivolta verso l’alto, iniziai a girare lo sguardo e trovai stupefatta la grande cupola dei tuoi rami. Ripercorsi con gli occhi il tragitto inverso ammirando in silenzio la tua eleganza. Il tronco come un lungo braccio e dal tuo polso, una mano e cinque lunghe dita dalle quali partivano a loro volta altre braccia e altre mani con lunghe dita. Pareva tu fossi in posa, un attimo di pausa nel tuo ballo eterno. A guardarti, mi arrivava un senso di eterna regalità.

Tornata a casa chiesi notizie su di te e venni a sapere che hai più o meno cinquecento anni. Alcuni dicono settecento, ma tutti mi hanno raccontato la stessa cosa: “E’ una quercia secolare. Era già lì quando ero piccolo e chissà da quanto tempo era lì prima di me”. Il nonno di mio figlio mi ha raccontato che quando era ragazzo, la sera d’estate veniva sempre lì sotto con gli amici e si sedevano tutti sulla grande pietra a chiacchierare. Poi hanno messo il recinto e da allora non ci va più nessuno.

L’anno scorso sono andata a vedere un film, dove c’erano i buoni e i cattivi. I cattivi volevano distruggere l’albero più vecchio del pianeta, sotto ai cui rami vivevano tante famiglie. Nel film c’era una scienziata che studiava quest’albero e diceva che nelle sue radici aveva più terminazioni nervose di quante ne abbia un cervello umano e che tutti gli alberi di quella specie erano collegati tra loro e comunicavano proprio come fanno i neuroni nei nostri cervelli. Allora ho pensato a te. Ho pensato che le tue radici debbano essere lunghe e profonde e che arrivino dove io non riesco nemmeno ad immaginare e forse riescono a toccare altri alberi i quali a loro volta ne toccano altri e così via. E la mia vita mi è sembrata lunga il tempo di un tuo unico respiro e mi è venuta in mente un’immagine di quando andavo al liceo.

La professoressa di scienze ci aveva portato in laboratorio a fare un esperimento. Avevamo messo del fieno a macerare in dei barattoli pieni d’acqua e noi dovevamo guardare questo miscuglio al microscopio. Succhiai una goccia di quel liquido con l’apposita pompetta e la risputai su un vetrino. Misi il vetrino sotto alle lenti del microscopio, uno di quelli veri, non come i giocattoli con cui mi era capitato di fare simili gesti fino a quel giorno. Avvicinai l’occhio al piccolo oblò e sorpresa, trovai animaletti a forma di fagiolo che agitavano un mare di luce bidimensionale. Mi staccai. Mi guardai introno stordita. I miei compagni ridacchiavano. Riprovai. I fagioletti correvano disordinati in tutte le direzioni: ognuno da solo, tutti allo stesso modo. C’era chi correva al lavoro, chi litigava, chi moriva e chi si riposava. In quel momento mi resi conto di essere il Dio che mi avevano raccontato. Ero il loro terremoto, il loro tempo, il loro destino. Ero un’eternità che li conteneva e allo stesso tempo tutto nel mio mondo era identico al loro. E questo pensiero mi mise calmò: era rassicurante vedere che dovunque avessi voluto correre, o qualsiasi cosa mi avesse fatto disperare era tutto di importanza microscopica. Letteralmente.

E così quando ti passo accanto nelle mie camminate, a guardarti mi sento proprio come mi sentii quel giorno a scuola tanti anni fa.  

Quando ero incinta di mio figlio e tornavo a casa, a volte, soprattutto nelle giornate limpide e calde, mi fermavo in mezzo alla strada con la macchina e aprivo il finestrino e mi rivolgevo alla pancia e dicevo: “Guarda in che bel posto vieni a vivere!”. E adesso che lui è piccolo e ancora non parla, tutte le volte che lo porto a passeggio ci fermiamo sotto ai tuoi eleganti rami e ti salutiamo. Lui non dice niente, ma ti guarda in silenzio. Secondo me lui, riesce ancora a vedere la tua danza. Allora ho deciso che per festeggiare la sua nascita, avrei piantato un albero. E magari chissà, un giorno, questo albero sarà grande e forte come te e saluterà i bambini che ci passano sotto.

Forse uno di questi giorni mi faccio coraggio e attacco bottone con i proprietari del giardino recintato e gli chiedo il permesso di abbracciarti. Per il momento continuerò a scriverti e a fare le mie passeggiate per venirti a salutare e nel frattempo, di tanto in tanto, continerò a chiedermi se per caso non ci sia qualcuno che ci sta osservando al microscopio. 

A presto."

(originalmente pubblicato 22 maggio 2011)

La morte, le campane e il jazz

Din. Pausa lunga. Don. Pausa lunga. Don. Pausa lunga. Dan. E a quest'ultimo danla pausa è ancora più lunga e riflessiva. E’ finito il cerchio. Poi riparte. Din-pausa-don-pausa-don-pausa-dan. Il primo din è acuto mentre il suono successivo è basso ed è proprio questa discesa nel tono che mi avverte: è successo qualcosa di triste. E così intuisco. A me non l’hanno mai detto, ma quando ho iniziato a sentire le campane di Santa Maria delle Carceri suonare così, ho capito che queste dovevano per forza essere le famose “campane a morto”. Da quando ho l’ufficio qui mi capita di sentirle regolarmente, quasi un giorno si e uno no. La morte è presente e frequente. Nonstante tutti i nostri tentativi di dimenticarlo. E questa campana ce lo ricorda. Spesso mi sono chiesta se è il prete a suonare la campana  o se invece c’è un congegno elettronico e basta premere un pulsante. E se così fosse, mi chiedevo allora, chissà cosa ci sarà scritto sui vari pulsanti: messa, Pasqua, Natale, morte.... 

Anche oggi la campana ha suonato. Mi sono presa un attimo di pausa per salutare la persona a cui questi suoni erano dedicati. Forse un bimbo, forse un’anziana signora, forse un emigrato morto lontano dalla sua terra. Mentre ero presente a questo saluto è passato in corridoio uno dei nostri studenti di musica e l’ho sentito che tra un din e un don c’ha infilato lo schiocco delle dita. Poi in un attimo ha aumentato il ritmo e ha iniziato a canticchiare il motivetto:din-stac-don-stac-don-stac-dan. E ancora: din-stac-don-stac-don-stac-dan. Mentre passeggiava nel corridio i suoi passi adavano a ritmo ed ho avuto la certezza che sarebbe andato giù, nell’aula a provare la nuova melodia aggiungendoci qualche ricamo: din/stoc-stoc-don/stoc-stoc-don/stoc-dan/stoc e poi din-dududap-don-dududap-don-duddap-dan-dan. E poi nella mia testa è partito un assolo con coro e battiti di mani, una tromba e l’immagine di gente sorridente. Insomma un inno alla vita. Perchè alla fine, la celebrazione della morte, appunto, mi sembra proprio un inno alla vita.  Grazie musica...

(originalmente pubblicato 22 novembre 2007)

Femminismo, pornificazione e discriminazione

Semplifico e generalizzo, ma non riesco a trattenermi dal commentare un articolo che ho letto da poco su “D”: La marcia delle Bambole, di Mara Accettura. Qui si parla di una certa Natasha Walter, femminista, e del suo ultimo libro “Living Dolls”.

 

Premetto: sono convinta che qui in Italia non abbiamo ancora raggiunto la parità dei diritti e che ci muoviamo in una cultura ed una tradizione saldamente maschio-centrata. Penso anche che sono tanti i settori in cui ancora non si tiene conto in modo adeguato della differenza dei sessi (basti pensare alla medicina). Ciò nonostante mi sento di dissentire con alcuni pensieri proposti nell’articolo. Per esempio, qui si sostiene che il femminismo è svanito e che le donne sono ancora più mercificate e svilite che in passato. Da questa prospettiva, si dà alla parola “femminismo” principalmente il significato di contrasto attivo alla discriminazione e subordinazione delle donne rispetto agli uomini.  Pur quanto sia convinta che di strada da fare ce ne sia ancora tanta, non penso che la “pornificazione del corpo femminile” sia necessariamente un segno di passiva subordinazione come sostenuto nell’articolo. Mi pare infatti che il “femminismo” abbia preso altre strade, ben diverse da quelle previste dall’attivismo politico degli anni ‘70. Quello di oggi non è un femminismo intellettuale (ed anzi in questa non intellettualità rivendica una distanza dal maschilismo), ed è meno politico e politicizzato che in passato. E’ un femminismo che si scontra soprattutto a livello sessuale e sociale in un contesto che è pornificato in generale, indipendentemente dai generi. A me viene quindi da pensare che questa pornificazione sia piuttosto un atteggiamento cercato e goduto. Un modo per avere maggiore controllo su un corpo che vive in una cultura corpo-dedita. Trovo quindi più “merce” gli uomini che sono vincolati ad una autoeducazione erotica in cui i principali parametri di riferimenti sono sempre gli stessi film porno del passato—rotondità, unghie lunghe e bocche aperte. Imparano a sbavare davanti a due palloncini di silicone coperti di pelle umana (vedi boom di bambole al silicone). Non a caso l’impotenza maschile e la paura del confronto sessuale sono in costante aumento e mi viene il sospetto che persino il numero degli omosessuali sia aumentato a causa—certo non unica—di questa costrizione culturale. Paradossalmente l’omosessualità maschile si ribella proprio alla pornificazione femminile e diventa il nuovo femminismo . Certo, non riesco ancora a guardare le quindicenni svestite, taccate e caciarone senza provare un misto di fastidio e commiserazione, ma non perché mi sembrino passive e mercificate quanto piuttosto perché i loro tentativi mi paiono maldestri ed ingenui di fronte ai veri esempi di gestione della pornificazione come Madonna ed ogni altra cantante pop di largo consumo dopo di lei.

(originalmente pubblicato 15 aprile 2010)

Scarpe e rivoluzioni sociali

Ieri mi sono trovata a comprare un paio di scarpe che la commessa mi ha venduto come “comode”. Nelle scarpe che ho comprato, si, certo ci sto bene. Ma non le definirei comode. Per me comode sono gli infradito e poco più. A queste alternative ho solo una ulteriore preferenza. Stare scalza. Tutto il resto per me è una non troppo remissiva accettazione di un mix di norme sociali, igieniche e del fatto che sono freddolosa e che le scarpe sono un accessorio che mi diverte. Ho capito allora che, per le scarpe femminili, l’aggettivo “comodo/a” aveva un nuovo significato: le scarpe comode sono quelle che non fanno male. E ho allora iniziato a pensare a tutte le scarpe con i plateau che vanno di moda diversi anni. Quei panettoni cementificati, certo comodi non possono essere. 

Quando sono iniziate ad andare di moda ho pensato—sbagliandomi clamorosamente—che sarebbero durate una stagione, al massimo due. Invece no, sono ancora lì, resistono imperterrite e vanno avanti con la loro baldanzosa torritudine. E come mai mi sono chiesta? Una tale resistenza al mercato, soprattutto quello delle calzature da donna, che esige cambi di stile ogni due stagioni (altrimenti sei una démodé). Come si spiega?  

Forse sarà perché di recente ho letto “Capitale Erotico” di Kathrine Hakim (non fatevi ingannare dal titolo, è un seriorissimo trattato di sociologia e storia del femminismo), ma penso che questo troneggiare sia una ulteriore conquista di spazio--letteralmente--da parte delle donne. E mentre infatti nella mia testa visualizzavo coloratissimi e altissimi plateau coloratissimi, mi è venuto in mente il lato estremo dell'abbigliamento femminile: il burka.

Le scarpe sono, di tutti gli accessori femminili, quello che maggiormente rappresenta gli umori, le tendenze e i desideri proibiti, sia di chi li indossa che di chi osserva. Le scarpe di adesso (stagine dal 2010 al 2013, un'eternità praticamente, in ambito moda) sono altissime, borchiatissime e agguerrite. Sono un piedistallo mobile che urla “guardatemi! Non ho paura! Non mi devo nascondere” (sarei curiosa, se fosse possibile, di capire quanto del successo di Lady Gaga è legato alle sue calzature).

Quanto importanti siano le scarpe nelle rivluzioni di costume e sociali lo dimostrano le sneakers dei rapper. Da calzature di cestisti sono diventate status symbol di una categria sociale precisa--benestante--e importate qua da noi, e indossate da adolescenti e "giofani" e dai cantautori pop senza ben capirne le implicazioni politiche. E certo non è un caso che nel video "Who runs the world" (chi domina il mondo) di Beyoncee--cantante poppissima--ci siano due gruppi che si fronteggiano--maschi e femmine: i primi armati di sneakers, le seconde di tacchi, piume e borchie. E la risposta alla domanda del titolo? Girls. Sono le donne che dominano.

Leggo sempre più spesso sondaggi di come oramai le donne abbiano superato gli uomini nella competizione della visibilità e della performance professionale (anche se non ancora in quella salariale). Mi guardo intorno e, al lavoro, le riunioni a cui partecipo sono sempre più spesso a maggioranza femminile. E in TV, è finalmente crollato il taboo dell’uomo basso. Adesso fanno finalmente vedere le varie presentatrici/veline, svettare lunghe e colorate ben al di sopra delle controparti maschili (e ripenso a Humprhey Bogart che pare si fosse fatto mettere un rialzo per baciare Ingrid Bergman nella famosissima sequenza di Casablanca).

Così questi comodini mobili, questi carrarmati blindati, mi sembrano un motto femminista. Un’appropriazione dello spazio fisico e soprattutto dell’altezza che da sempre rappresenta la gerarchia dell’ambibile. In effetti, a pensarci bene, anche tutti le esplosioni del corpo siliconato sono anche queste forme di espansione controllata nello spazio maschile. Come dire: “bene, accetto che i parametri siano questi, ma decido io come, quando e soprattutto in che misura e tu guarda e zitto”. E i maschi? I maschi, stanno finalmente trovando l’intimità necessaria ad effeminarsi e permettersi fragilità e stanno letteralmente perdendo terreno (o altezze). E non pare poi se ne preoccupino poi tanto. Finalmente scansati dal piedistallo, stanno scoprendo il lusso e la comodità di poter essere donne, magari come quelle che si mettono un mezzo tacco...
(originalmente pubblicato 25 novembre 2012)